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Marcel.li Antunez Roca: dal teatro punk della Fura
dels Baus degli anni Ottanta al one-man-show interattivo. |
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Se in "Epizoo" il suo pseudo-martirio era determinato, subìto, dalle cliccate degli spettatori non più solo voyeur ma interattivi (veramente, in senso digitale, attraverso il mouse) in "Afasia" , da poco andato in scena al Teatre Nacional de Catalunya in Barcellona, il gioco si ribalta: è il suo corpo ad intervenire in modo esteso, protesico, sulla scena. Con un complesso esoscheletro innervato di sensori (di tipo diverso: elettromagnetici e interruttori dinamici al mercurio) Marcel.li esprime una tele-operatività che permette di muovere dei robots musicali e d’interagire con una videoproiezione da computer. Sulla scena campeggiano totemiche delle installazioni d’acciaio (di Roland Olbeter) che attraverso un complesso sistema di servomeccanismi producono dei suoni: una sorta di grande chitarra, un tamburo e una serie di fiati. Con il movimento del suo corpo pilota le interfacce: agisce a distanza su questi strumenti suonandoli con una gesticolazione precisa, da inedito one-man-show interattivo. Diventa uomo-orchestra: si muove e suona, estendendo l’azione del suo corpo non solo nello spazio ma "nelle" macchine elettroniche che traducono i suoi gesti in informazioni dinamiche, bit che muovono le cose. Il suo corpo con quelle protesi elettromeccaniche muove la macchina, la informa (le soluzioni interattive sono di Sergi Jordà e Toni Aguilar). Un paradosso inverso da quello messo in scena con "Epizoo" dove immobile, esposto come una scultura di carne, veniva agito, mosso (con servomeccanismi che gli pinzavano le orecchie, il naso,le natiche,etc) dalla macchina: il computer messo a disposizione dello spettatore interattivo. Una vendetta quindi. Il cyber-martire si è ribellato, questa volta il gioco lo determina lui. E il gioco si fa spettacolo secondo una dimanica teatrale, sviluppata nel tempo secondo un andamento certamente non narrativo ma connotato da una certa logica-conseguenzialità ispirata alle vicende dell’"Odissea" di Omero. Marcel-lì diventa così Ulisse in un viaggio mitico che scorre alle sue spalle nella videoproiezione. E’ un cartoon realizzato in computer animation dallo stesso Antunez con Paco Corachan: un’infografia pop e divertente, allucinata e graffiante. Dopo la violenza iperbolica e visionaria della guerra di Troia, Marcel.li-Ulisse è pronto a salpare ma deve prima addestrare il suo equipaggio: è qui che trova luogo uno dei momenti più significativi dello spettacolo. Sullo schermo c’è un filmato con degli attori che ubbidiscono ai suoi ordini, grida e gesti che si traducono in energiche cliccate che dal suo esoscheletro irto di interuttori e sensori azionano il video e la computer animation. Esemplare. Li fa marciare, rispondere, baciare e accarezzare. Li agisce, azionando la sua interfaccia digitale. Il filmato è stato masterizzato su DVD (il nuovo standard che supera il CD-Rom come capacità di memoria) e il feedback alla sua azione è immediato: sembrano lì, in diretta, pronti a scattare ai suoi imput di comando. E lo seguiranno dovunque il questa deriva digitale, in viaggio nella mitica odissea, in una mare di guai: dallo sballo nell’isola dei lotofagi alla guerriglia con il Ciclope, in una continua discesa all’inferno con ritualità più ludiche che macabre, in cui sangue (salsa), frattaglie e uova si sprecano. La sensualità si coniuga con l’ironia, affermando un dionisismo libero da paranoie sacrificali come quella di Hermann Nitsch, eppure intense come un vero gioco primordiale che sembra evocare un’ancestrale tribalismo. E’ in questo duplice registro: tecnologico-interattivo e tribale-dionisiaco che Antunez fonda la sua performatività. Dà così corpo e senso al titolo stesso dello spettacolo: Afasia. Dimostra che al di là della perdita di linguaggio delle narrazioni alfabetiche c’è una potente condizione espressiva che partendo dal corpo può attraverso la gestualità pilotare un complesso sistema di comunicazione multimediale. Il corpo si fa orchestra polisemica, traducendo la sua afasia in un clamore audiovisuale di strraordinario impatto spettacolare.
Intervista Il tuo percorso è iniziato con La Fura dels Baus di cui sei fondatore... "Si, il gruppo è nato nel 1979 ma solo cinque anni dopo,nel 1984, con "Accions" si può dire sia iniziato il cammino in un’esperienza stilistica significativa. In quegli anni però, ci tengo a dirlo, ho formato un gruppo con un nome che mi piace ancora: "Errore Genetico". Eravamo in quattro e qualche partner animale, come un pappagallo cantante e poi avrei voluto trovare uno scimpanzé batterista. Cercavo di coniugare l’aspetto sonoro con quello scenico, quello elettronico dei sintetizzatori con quello percussivo. Mi interessava molto l’idea delle infermità e delle incapacità fisiche. La filosofia dell’Errore consisteva nel dare una nuova forma alle mostruosità del corpo umano, ecco perchè mi sarebbe piaciuto molto avere animali nel gruppo. Abbiamo anche scritto un piccolo manifesto che abbiamo mandato alla Rote Fabrik di Zurigo dove abbiamo suonato facendo un bel pò di chiasso, prima del concerto abbiamo fatto irruzione gridando e lanciando petardi. Volevamo andare contro lo stile di vita hippy molto diffuso tra i giovani spagnoli, per cercarne uno più duro, più aggressivo, più punk. In quegli anni, anni speciali per Barcellona, la Fura iniziò le sue azioni. Eravamo un gruppo di amici, qualche musicista, qualche trampoliere, giocolieri e si faceva teatro di strada. Ma dopo un pò capimmo che dovevano uscir fuori da quelle pratiche festive e folcloriche per inventare nuove forme. Passammo dagli spazi aperti delle piazze agli spazi chiusi ricerando climi metropolitani, sotterranei. "Accions" rappresentò questo, qualcosa in cui si poteva trovare sia il punk che gli Azionisti Viennesi di Hermann Nitsch, Yves Klein e le ritualità ancestrali catalane. Vidi "Accions" proprio in quegli anni, fu una ventata di energia brada,libidica, molto differente dalle tensioni concettuali dell’avanguardia italiana. Va detto che quella esperienza così tribale trova oggi ancora maggiore attenzione, vedi "Manes". La Fura quindi continua ad alimentare un filone che si perpetua nel tempo. Fanno repertorio, sono diventati insomma una grande macchina-spettacolo. Dopo la separazione come definiresti la differenza che c’è tra la tua ricerca e la loro? E’ proprio il fatto di diventare macchina-spettacolo che macina repertorio che stabilisce la differenza sostanziale: loro sono i quel modo e io sono un artista che lavora da solo e coinvolge altri secondo un progetto preciso. Penso che dal punto di vista della ricerca artistica la Fura lavora ancora oggi, negli anni Novanta, nell’idea di una pluri-disciplinarietà, mescolando diverse tecniche ma senza che esista una vera interazione. Il mio lavoro cerca nell’interattività l'unità dei diversi linguaggi da cui si genera una nuova condizione di spettacolarità. Il tuo lavoro è ai confini tra sistemi dell'arte e quelli del teatro. Lo conferma anche la tua esperienza fatta subito dopo La Fura: i Los Rinos, una reincarnazione dadaista. Fino a che punto credi che arte e teatro possano andare in cortocircuito, sfuggendo alle convenzioni date e creando uno spazio autonomo di spettacolarità? Non credo nella differenza tra questi sistemi, penso che le nuove tecnologie permettano nuove classificazioni. Esiste la possibilità di lavorare in un unico spazio dove tutto si mescola. Questo non è un’altra volta il vecchio discorso dell'ultima avanguardia, questo è adesso la realtà. E’ cioè la possibilità di leggere la storia, il presente e il futuro sotto la prospettiva ipertestuale. E’ possibile immaginare una spetacolarità che puo nascere da diversi punti. Nel futuro non lontano immagino critici e professori con la testa aperta per capire e programmare questa nuova spettacolarità e poi per quanto riguarda il pubblico questa disponibilità c’è già. Ancora prima di "Epizoo" avevi realizzato "JoAn, l’home de carn", una sorta di cyborg con la pelle di maiale e il sesso interattivo. Era il 1993 è già cercavi una forma per spettacolarizzare l’interattività. Con "Epizoo" hai raggiunto il paradosso: far muovere l’attore dal pubblico. E ora con "Afasia" il tuo corpo orchestra tutto l’impianto scenico e multimedale. Cosa significa per te questa estensione protesica della tua azione fisica nell’ambiente digitale? Prima di tutto queste investigazioni mi permettono di sperimentare il rapporto con il pubblico. "JoAn" era una figura ibrida tra l’organico (la carne) e l’artificiale (la macchina informatica) e oltre a incuriosire imbarazzava percheè dei sensori acustici faceva attivare l’erezione dell’homme de carn. Operare in mezzo ad una complessità come quella di "Afasia" significa avere la possibilità di controllare fisicamente tutto quello che succede durante la performance: tutto significa controllare luce, suono, imagine multimedia con il video DVD, videocamera in tempo reale, effetti del suono, robots e sequencer MIDI. Ciò permette di esprimere con "Afasia" una nuova forma ceremoniale, come un rituale che si fonda sull’interattività. Questo impianto risponde all’intento di creare una nuova interfaccia, che fa funzionare l’intero spettacolo a partire dal corpo. L'uomo ha creato in molti secoli tante interfacce che permettono tante libertà d’azione ma allo stesso tempo dei limiti. Per esempio la tastiera del computer è la riproposta della tastiera del pianoforte, non si può certo dire che sia male, ma questo ti obbliga a essere sempre seduto, senza nessuna altra attivita che quella di agire con le mani solo sulla tastiera che è appunto un’interfaccia che costringe il nostro corpo a essere sedentario, in questo senso è evidente il limite di questa soluzione. E’ proprio nel tentativo di superare questi limiti che lavoro sulla ricerca di nuove relazioni con le macchine, portandole in scena con un impianto multimediale come quello di "Afasia". Spesso il tuo nome viene affiancato a quelli di Orlan, Stelarc, Franco B, Ron Athey. Alcuni d loro esprimono una linea che potremmo semplicisticamente definire "body art" estrema. Si tende a spettacolarizzare il corpo fino alle estreme conseguenze del sangue e del dolore. Cosa ne pensi? Ti senti vicino a questa radicalizzazione? Sono amico di Franco, Ron e Stelarc. Mi sembrano persone normali, artisti che cercano d'esprimere le loro idee in una forma nuova di espressione. Non sempre le forme nuove sono comode per il sistema culturale, questo infatti tende a perpetuare le sue forme consolidate con gli stessi tipi di artisti, lo stesso tipo di opere. Ma va anche detto che il mio lavoro è diverso da quello loro. In "Afasia" hai scelto come metafora drammaturgica l'"Odissea". Come mai questa necessità di utilizzare una soluzione in qualche modo narrativa? Penso che sia una forma per ordinare le diverse idee che avevo messo in campo per poi svilupparle nel montaggio dello spettacolo. "Afasia" sviluppa una grande quantità di informazioni e visioni che può produrre un certo disorientamento nello spettatore. Il fatto di dare una linea di riferimento narrativo, o meglio topografica (non scordiamoci che l’"Odissea" è una straordinaria metafora geografica) può facilitare la lettura dello spettacolo. E poi con Ulisse si naviga da un’isola all’altra: è un buon dispositivo, ogni sosta un guaio, una storia allucinata. (Fleshart, febbraio 1999) ^ |
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