Dopo il Diario del 1999

Mettere a registro gli sguardi

Ci vediamo intorno a dei banchi, piazzati nel grande salone del Liceo Artistico, proprio di fronte al Liceo Classico "Marco Polo" dove lo scorso anno era partito il laboratorio d’arte dello spettatore.
Quest’anno niente diario di bordo on line della Biennale gli dico, ma si sta realizzando un altro progetto, più specifico e per alcuni versi più intenso e articolato, concentrato sull’esperienza del Cantiere Orlando del Teatro delle Albe.
Detto questo illustro le modalità di un lavoro semplice ma inusuale, quello che definisco di "scrittura connettiva" è solo una traccia da sviluppare magari in seguito, se con la Biennale ci sarà sviluppo. Nel frattempo si tratta di andare a vedere uno spettacolo della Biennale Musica, un’operazione su Kafka per l’allestimento di uno dei gruppi teatrali più interessanti, i salentini di Koreja. E magari iniziare a mettere a registro i nostri sguardi.
Non sapevo ancora se sarebbe stato opportuno mettere sul web qualcosa ma una ragazza, Linda (che chiamerò poi "Lindaweb") si lancia con una splendida disponibilità a comporre in html le scritture, bene sarà importante contare su di lei se le cose procederanno in futuro.
Andiamo a vedere lo spettacolo, ci vediamo prima, davanti al teatro Arsenale. Viene anche Irene della "multitaskforce" dello scorso anno, viene con Tommaso che coglie degli aspetti peculiari dello spettacolo, le dissonanze alla Zorn e "la drammaticità della luce". Questo "K" si rivela però come un "tentativo fallito d’entrare negli incubi di Kafka", e anche per le ragazze del Liceo Artistico è "un delirio totale". Più preciso ed evocativo il contributo di Irene che parla del "grido di un affogato", una sensazione che traduce la sua idea di Kafka in musica.

    
 

La drammaticità della luce

Ciò che mi ha colpito da subito è stata la musica (quella che a te non piaceva...): una musica quasi "zorniana" (se conosci John Zorn, solo che qui la musica rientrava nella categoria classica, mentre Zorn è più jazz) che sembrava essere in simbiosi con le parole, i gesti degli attori e i movimenti sulla scena; a tratti sostituiva addirittura le parole, in altri creava i rumori dell'ambiente (quasi proponendo sul piano musicale la tecnica kafkiana dell'inversione, cioè capovolgendo i piani del reale e dell'irreale, in pratica i rumori creati dagli strumenti erano quelli reali mentre quelli prodotti in scena apparivano irreali). L'impressione che ne scaturiva era quella di estrema efficacia; inoltre faceva riflettere su quanto i musicisti abbiano lavorato per sincronizzare il tutto e renderlo al meglio.
Inoltre tengo a sottolineare la buona godibilità di tutta l'opera (però con una particolare predilezione per il primo atto), nonostante la sua notevole durata.
La luce presente in scena, contrastata e arricchita anche dal proiettore alle nostre spalle, aiutava a creare la drammaticità che gli attori sembravano aver messo un po' in secondo piano (forse ero solo io che mi aspettavo una cosa più "cupa").
L'unico difetto che potrei imputare all'opera è la difficoltà con cui si segue la trama:era, infatti, estremamente difficile (se non impossibile, ma potrei essere io a non essere in grado...)seguire il filo della narrazione. Forse è stata una scelta un po' azzardata convogliare in un unico atto due opere di Kafka.
L'ultima osservazione è per i costumi: decisamente originali e generalmente adeguati alla storia, solo alcuni erano decisamente stravaganti e incomprensibili (se mai un costume può esserlo...).
Infine l'impressione generale è quella di un teatro sperimentale sì, ma che rimane ben al di qua del confine, oltre il quale vi è esoterismo e soluzioni spesso estreme, incomprensibili.
(tommaso)

 
 

Delirio totale

Un brusio generale, risatine sottovoce, il viavai dei tecnici e lo stridulo suono di qualche archetto ancora indeciso…. Entro in uno spazio bellissimo: il teatro dell’Arsenale.
I commenti pre-spettacolo vengono interrotti dall’improvviso suonare dei musicisti…. Il mio sguardo, che per istinto si sta volgendo verso il palcoscenico, viene invece distratto dalla figura del direttore di una mini orchestrina che, a metà tra il pubblico ed il palco (per instaurare un più intimo rapporto con gli spettatori?), sembra voglia prepotentemente guadagnarsi il ruolo da protagonista (il che non sarebbe poi così strano, visto che è stato lo spettacolo ad essere stato adattato alla musica). E’ solo in un secondo momento, infatti, che ci si accorge che di fronte a noi è già successo qualcosa: una donna, che in realtà poi si scoprirà impersonare la figura di un giovane, sta nervosamente portando avanti e indietro uno strano cagnolino che avevo comprensibilmente scambiato per un tagliaerba. Sembra una di quelle figure di qualche bizzarro sogno che al nostro risveglio non sappiamo minimamente identificare!
Non ci si può distrarre per la vana paura di perdere la battuta fondamentale per la comprensione generale, ma le parole degli attori-cantanti lottano senza speranza contro i disorganici suoni del sottofondo musicale, ancora per poco sopportabile.
Appesi, opachi pannelli sembra vogliano dare l’impressione che le figure umane si sdoppino davanti ai nostri occhi; celano i loro spettri.
Lo spazio surreale, quasi dechirichiano, è reso magnificamente: scale di cui intravediamo solo i pioli illuminati da una voce fioca, porte e finestre qua e là.
Sei abbagliato dal riflesso della luce sulle teste pelate degli attori…. Sembra di essere entrati nella testa di John Malcovich!
Non è un ambiente fiabesco, anche se pare che i personaggi vogliano giocare al Cappellaio Matto!
Karl appare come l’unica figura realistica in questo spazio metafisico. Giunto in America dopo aver navigato su di un fantastico tavolino di legno, grazie alla sua umana ingenuità si lascia abbindolare da una sorta di Gatto e la Volpe che non tardano a derubarlo. Come se cinema e teatro volessero fondersi, consequenzialmente vengono proiettate immagini sui pannelli, così talvolta ci troviamo davanti ad un film i cui personaggi sono però tridimensionali a tutti gli effetti, tanto che da un momento all’altro possono saltare fuori dello schermo e viceversa. Potresti entrare anche tu a far parte dello show, come si permettono di fare i musicisti che, per un po’ dimenticati, per rimpossessarsi dell’attenzione dello spettatore, si mettono a gironzolare tra gli attori.
E’ un lungo film anni Venti, in cui domina il grigio. Un'unica violenta tonalità di rosso (come la bimba in Schlinder’s list) risveglia i nostri occhi impigritisi ad una cupa gamma cromatica. Sono le vesti cangianti di una cantante ed il suo amante che si offrono di ospitare Karl.
"Se hanno acceso le luci, qualcuno ne avrà bisogno", è questa l’unica frase che scandiscono chiaramente un trio di donzelle, che giocano (oltre che burlarsi del giovane Karl) con le proprie ombre che si allungano sui pannelli.
E’ solo alla fine che per la prima volta il palco rimane totalmente sgombro, per far sì che le quinte fungano effettivamente da quinte di un teatro cui tutti sono tenuti a partecipare….d’impatto l’ultima scena: le luci per la prima volta ti abbagliano (o ti svegliano!).
Questo era America, il primo tempo dello spettacolo. E’ la volta del Processo. Ci si prepara ad una nuova scenografia, questa volta più funzionale ma non per questo poco efficace, anzi, lo spazio è nuovamente reso a meraviglia. Sono le nostre orecchie che a questo punto vengono irreparabilmente disturbate dall’ormai insostenibile orchestrina, che da un’oretta e mezza persiste con i suoi suoni irregolari e fa sì che il sopore alimentato dalla fast-cena pre-spettacolo si faccia ora sentire. Le teste davanti a me che prima non ne volevano sapere di farsi più umili, ora mi lasciano godere di una più ampia visuale (come li comprendo!). Ma questo penoso sottofondo si sposa effettivamente a meraviglia con ciò che avviene sul palcoscenico, che via via sta diventando un incomprensibile dialogo canoro. A mantenere svegli (anche buona parte della platea) sono questa volta i costumi: nylon e plastica colorata giocano a fare i tessuti, creando una cyborg popolazione. Una donnina, dall’abito a palloncino e le scarpe alte, esce da una porticina e pare che sfili… allora ti salta immediatamente agli occhi una cosa; deve essere passato qualche anno perché gli attori ora possiedono folte ed esagerate capigliature alla Margie Simpson!
Il Processo ha preso in prestito la scenografia dal processo della Regina di Cuori di Alice nel paese delle meraviglie. Ma il limite lo supera il Castello, sia per i tempi eccessivamente lunghi che per l’incomprensibilità. Davanti a me per un po’ si fa buio… no, no, il sipario non ha alcuna intenzione di chiudersi, sono le mie palpebre ad essersi chiuse. Il mio sipario personale.
La " musica" continua e per pudore riapro gli occhi: una donna sta spingendo un vecchio su una sedia a rotelle con una mascherina sanitaria alla bocca… delirio totale. Originale la conclusione: un trittico dai colori fluo…
(multitaskforce Liceo Artistico)

 
 

Il grido di un affogato

Il suono è un controsenso. Difatti è forse una delle uniche esperienze che possiamo avere di un qualcosa di reale e, allo stesso tempo, immateriale, evanescente, inesistente. E' un qualcosa che ci accompagna in ogni singolo istante ma, al di là dell'abituale associazione ad immagini note, è per sua natura altro. Così succede qualcosa di inaspettato nel momento in cui suoni e immagini vengono separati e sembrano vivere di vita autonoma a spese del mondo reale, che ci ritorna come dall'interno di un gigantesco caleidoscopio di sensazioni frammentate. Anche quello che ci sta intorno comincia a parlare. Usciti dal teatro dove abbiamo assistito alle prove della TRILOGIA DELLA SOLITUDINE di Kafka musicata da Luca Mosca per la prima volta sentivo come una segreta assonanza tra le voci, i suoni e i rumori che mi circondavano. Per la prima volta ascoltavo la melodia sotterranea di una parola ripetuta casualmente, di un rumore di sottofondo sincopato.
Quella musica mi seguiva. Ed è strano, perché in realtà credevo di aver prestato maggiore attenzioni alle immagini bellissime e turbinanti che apparivano sul palco, alla storia, che sembrava muovere queste figure come un silenzioso burattinaio. Ed invece per tutto il tempo ero stata inconsciamente sedotta da quell'armonia di singhiozzi, di gridolini, di risa che scaturiva dai gesti del direttore e dei musicisti. E le immagini sul palco, ben presto me ne resi conto, erano immagini musicali, che vivevano della stessa vita evanescente dei suoni stessi, perpetuamente prossimi alla conoscenza. Credo tuttavia che questa rappresentazione abbia preso una certa autonomia da Kafka stesso, vivendo quasi di vita propria. O forse sono io che mi sono sempre immaginata una musica diversa leggendo Kafka. O meglio un silenzio agghiacciante. Per me Kafka è questo silenzio, il suono di uno sguardo fisso, del grido sottomarino di un affogato. Così per me queste immagini tintinnanti erano belle e distanti, come un universo di castelli di carte, come la musica stessa, di cui non puoi avere una memoria precisa quando finisce, ed esiste solo nel momento in cui c'è il suono. Subito dopo non è mai esistita.
(irene)

 
 

Il tentativo fallito di entrare negli incubi di Kafka

I liquidi colorati si sciolgono nell’acqua, si espandono illuminati, incorniciati dai portali della scenografia teatrale. Tutto si ferma, nell’epilogo di "K" prodotto da La Biennale Musica di Venezia, per dare luogo allo sguardo dello spettatore di godersi questa semplice alchimia di colore messa in luce, messa in scena. E’ infatti nelle soluzioni sceniche di questo tipo, fortemente evocative, caratterizzate da un segno pittorico che sa farsi teatro (quello di Lucio Diana, già noto come scenografo del Teatro Settimo) a fare di questo esperimento di nuovo teatro musicale qualcosa di godibile. Eppure, alla fine dei conti, non è bastato: testo e musica non hanno funzionato.
Tradurre le pagine dense della scrittura di Kafka ("America", "Il processo", "Il castello") in opera teatrale sarebbe stato arduo in partenza, fallimentare poi, se (come purtroppo è accaduto) a quella complessità testuale si è voluto innestare altra scrittura, secondo una concezione drammaturgia che neanche un secolo fa avrebbe funzionato. Ridondanza, parole di troppo. Sarebbe stato stimolante entrare, attraverso la visionarietà scenica, negli incubi di Kafka, ma la librettista (Pilar Garcia) non ce l’ha permesso ci ha fatto annoiare prima. Tutto questo nonostante la capacità registica di Salvatore Tramacere, con gli attori di Koreja, nel giocare gli elementi della scena.
La stessa musica di Luca Mosca, da cui parte tutta l’operazione su committenza de La Biennale (che rivela comunque un’encomiabile intenzione di rivitalizzare un Teatro Musicale possibile), raggiunge momenti di buona intelligenza compositiva, fa suonare il piccolo ensemble con strumenti extra-tradizionali (come il didjeridoo australiano), ma purtroppo si arena in un’idea musicale pedante, arroccata sugli stilemi di una musica contemporanea troppo datata e atonale.
Il progetto di un teatro musicale di nuova spettacolarità che fortemente si auspicava va così scemando nella lungaggine dell’operazione che ci lascia delusi (anche i ragazzi delle scuole veneziane che hanno scritto un "diario della biennale") fondamentalmente per il tentativo fallito di entrare, con l’azione-visione teatrale, negli incubi di Kafka.
(cain)