Zio Vanja
PERCHÉ
UN CECHOV COSI? |
LO
SCIALLE DI CACHEMIRE
Quante volte ce lo siamo detti: Cerchiamo di sfuggire dal gioco di massacro del giudizio! Relativizziamo i nostri punti di vista: inventiamoci un altro modo per dare luogo a quell'approccio che amo definire "punto di vita". Uno di questi modi è quello di concentrarsi sui dettagli, su quei particolari che in alcuni casi coincidono con i picchi-colpi di scena, lo già detto. E' un buon modo per sfuggire alla tentazione di parlar male del Zio Vanja allestito da Federico Tiezzi che proprio recentemente avevo riabbracciato al Fabbricone di Prato entusiasta del suo "Scene di Amleto", alta ed emozionante rilettura soggettiva (in cui si ritrovava il filo rosso del teatro d'invenzione dei Magazzini, già "Criminali", il suo gruppo) di un ennesimo Shakespeare finalmente rilanciato nel nostro immaginario contemporaneo, senza smorfie. Gli avevo detto " credevo di averti perso", preso com'era nel firmare allestimenti di buona (se non eccellente) consuetudine teatrale. Ma con questo Vanja purtroppo ricade, preso e perso nel gioco teatrale dei repertori collaudati e venduti a scatola chiusa. Come i "future" di buona cantina (quei Baroli o Brunelli che vengano acquistati prima della vendemmia). E' talmente distante da me quello spettacolo che non riesco a rivederlo nella mia memoria. Non l'ho preso, l'ho perso. Mi affiora però un dettaglio che non rivela la scena ma un piccolo, indicativo, vezzo: uno splendido cachemire lilla che avvolge i bei fianchi di Luisa. Mi dissi (pensate a cosa si va a pensare quando non si cosa pensare): è di una lana troppo rara e fina da usare come costume di scena.. Ecco poi che fuori dei camerini vedo Federico avvolto da regista superstizioso con quello scialle. Vedo in questo atto una sorta di microrituale teatrale rivolto al proprio interno, autoreferenziale. Un gioco fatto di narcisismi. Vedo in tutto questo un'inerzia snob, un loop di artisti per artisti. Mi vedo di conseguenza fuori. Distante e deluso per uno spettacolo che indebolisce l'atmosfera di questa Biennale bella e coraggiosa. E che ci lascia con delle domande amare come quelle lanciate da Gianguido. (Carlo I.) |