Gli ebrei italiani tra Europa e Israele
di Fabio Levi
La storia degli ebrei, per la sua straordinaria ricchezza di tempi e di
luoghi diversi, è un argomento inesauribile. Raccontarla con cura
e sulla base di un rigoroso rispetto dei fatti può essere d'altra
parte uno dei modi più efficaci per contrastare i pregiudizi, o
anche solo la mancanza di conoscenze, che molto spesso impediscono una
discussione seria. Quella storia non può tuttavia essere ridotta
alla vicenda dello sterminio, malgrado esso le abbia imposto un marchio
indelebile. Neppure può ritenersi adeguata una interpretazione
che pretenda di guardare ogni cosa esclusivamente sotto il segno della
persecuzione. Così, anche la tentazione, derivata dall'emozione
per quanto sta accadendo in Medio Oriente, di assumere il rapporto con
la Palestina e con Israele come riferimento centrale di ogni ragionamento
sul presente - ma anche sul passato - degli ebrei può condurre
a semplificazioni che non aiutano certo a capire. Nella complessa vicenda
degli ebrei c'è indubbiamente tutto questo, ma c'è anche
molto altro. In particolare assume un rilievo cruciale l'intreccio, assai
stretto e di lunghissimo periodo, che la lega alla storia dell'Europa,
vero e decisivo retroterra dei drammi accaduti nel secolo scorso e di
molti degli avvenimenti più attuali.
Le iniziative a carattere più propriamente storico offerte in occasione
di Arcastella intendono appunto offrire un contributo di approfondimento
nella prospettiva appena indicata. Più che l'Europa al centro sarà
posta l'Italia, ma cercando ogni volta di mettere in luce peculiarità,
analogie e rapporti con gli altri paesi del continente interessati da
una significativa presenza ebraica in età contemporanea. Si pensi
anche solo alla limitata dimensione relativa delle comunità italiane,
alla loro diffusione nei contesti urbani del Centro Nord o all'estrema
varietà delle relazioni da esse intrattenute con il più
ampio quadro europeo e mediterraneo. Per non dire poi della maggiore facilità
con cui, a differenza di altri paesi, si è realizzato il processo
di integrazione e di acculturazione degli ebrei italiani dall'emancipazione
in avanti. Di tali aspetti e di molti altri si parlerà con riferimento
in particolare a tre momenti, scelti fra molti altri per il loro indubbio
interesse.
Un primo incontro verrà dedicato al ghetto di Torino nel '700,
a una realtà cioè molto vicina a noi, analizzando la quale
sarà possibile riferire la vicenda degli ebrei e la loro diversità
a un contesto meglio conosciuto e dunque più facilmente misurabile.
Luciano Allegra avrà modo di descrivere le linee generali della
politica di Ancien Régime nei confronti degli ebrei con un'attenzione
particolare al Piemonte. Del ghetto verrà considerata la rigida
separazione dal contesto, senza tuttavia sottovalutare i forti legami
con la realtà locale, che ne facevano un tassello essenziale della
società e della cultura del tempo. Gli stessi cambiamenti che interessarono
sul finire del XVIII secolo la sua struttura interna, oltre a prefigurare
la tendenza a una crisi destinata a rivelarsi irreversibile, saranno utili
a dimostrare una volta di più come, anche con riferimento ai momenti
di maggiore isolamento, gli ebrei e la loro storia non possano mai essere
considerati al di fuori delle relazioni con la società circostante.
Il secondo incontro sarà invece l'occasione per ripercorrere a
grandi linee la storia di due altre comunità italiane per tutto
l'8OO e fino alla Prima guerra mondiale. Grazie a Barbara Armani e Tullia
Catalan sarà possibile considerare i caratteri e le vicende particolari
di due realtà ebraiche molto distanti fra loro, come Firenze e
Trieste: diverso era il contesto in un'Italia dai mille volti, dove i
saldi rapporti col la Mitteleuropa sul confine più orientale della
Penisola avevano un preciso contraltare nelle aperture alla realtà
mediterranea di altre comunità insediate nel Centro; diversi erano
la provenienza, i comportamenti demografici e la composizione sociale
dei due gruppi di ebrei; diversi ancora furono i processi di emancipazione
e di integrazione nella società di maggioranza. Senza però
dimenticare con questo i tratti di somiglianza e soprattutto i rapporti
non infrequenti fra realtà che si consideravano malgrado tutto
parte di un medesimo universo storico e culturale, oltre che religioso.
Toccherà infine a Giovanni Miccoli affrontare una terza questione
non meno cruciale per la storia degli ebrei in generale e ancor più
per quelli italiani: il ruolo della Chiesa cattolica da Porta Pia al fascismo.
La vicinanza del papato ha avuto per secoli un peso molto importante sulle
vicende degli ebrei della Penisola, dei quali peraltro una percentuale
molto consistente risiedeva a Roma e nel territorio pontificio. Non meno
rilevante è stata la distanza stabilitasi fra il nuovo Stato unitario
di impronta liberale e la Santa Sede nella seconda metà dell'800,
quando la mancata saldatura fra potere temporale e potere religioso finì
per garantire alla minoranza ebraica spazi di iniziativa del tutto insperati
e comunque molto più ampi che non in altri paesi europei. D'altra
parte la dimensione internazionale della Chiesa e la sua interessata consonanza
con le tendenze antisemite attive in diversi paesi del continente ne fecero,
soprattutto negli ultimi anni del XIX secolo, ben più che una cassa
di risonanza della montante ostilità antiebraica. Non meno interessante
si rivelò poi il rapporto della Santa Sede con i regimi di Hitler
e di Mussolini.
Una maggior conoscenza dei temi cui si è sinora accennato può
dunque avvicinare il pubblico interessato ad un percorso storico non facile
da delineare, ma da cui non si può prescindere anche quando si
guarda agli avvenimenti più attuali. Così i tre incontri
proposti valgono anche come logico presupposto delle altre due scadenze,
previste nel programma di Arcastella e dedicate alla storia del rapporto
che gli ebrei italiani hanno intrattenuto con la Palestina e con Israele.
In due serate diverse, ebrei di due generazioni, i più anziani
e i più giovani, daranno testimonianza del modo in cui hanno vissuto,
ognuno dal suo punto di vista, quel rapporto, riferendo la propria esperienza
individuale al contesto storico più ampio.
Fabio Levi è professore di Storia contemporanea
presso la Facoltà di Lettere di Torino. Si occupa da anni di storia
delle persecuzioni antiebraiche in Italia e, più in generale, della
storia degli ebrei nel nostro paese fra Otto e Novecento. Cura su questi
temi una collana per l'editore Zamorani di Torino nella quale ha pubblicato
fra l'altro L'ebreo in oggetto. L'applicazione della normativa
antiebraica a Torino 1938-1943, 1991 e L'identità imposta.
Un padre ebreo di fronte alle leggi razziali di Mussolini, 1996.
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Le due patrie dell'arte
di Ernesto Pezzi
Per quanto possa sembrare azzardato affermarlo, l'arte non gode di un
solido statuto di cittadinanza. Questo è dovuto probabilmente al
fatto che la storia ha compiuto un lavoro di erosione sui suoi presupposti.
Possiamo considerare artistiche nel senso moderno del termine e valutare
l'attualità delle opere d'arte antiche a condizione di vedere il
vuoto del loro volto di idoli, di incavare le credenze che le hanno prodotte
ma che ce ne separano. L'immagine di esse che accogliamo è in stridente
contrasto con il loro contenuto idolatrico: inevitabilmente ci confrontiamo
con il loro vuoto, con l'assenza che ospitano.
L'incontro di Ulisse con le ombre dell'Ade, l'evocazione di Goethe delle
"evanescenti figure" (schwankende Gestalten) nella Dedica del
Faust - ci pongono davanti all'evidenza che abbracciare le figure è
impossibile, e le collegano d'altra parte a un senso di insopprimibile
malinconia. Questo genere di apparizione, allo stesso tempo familiare
ed estranea è a detta di Freud unheimlich, "perturbante".
La storia dell'arte si collega dunque con un tale tentativo di dominare
questo mondo che ci assomiglia ma in cui non possiamo entrare - il mondo
delle immagini che è anche inevitabilmente il mondo dell'assenza,
come specifica Levinas: "Il procedimento più elementare dell'arte
consiste nel sostituire all'oggetto la sua immagine," e, più
sotto: "L'oggetto rappresentato, per il semplice fatto di diventare
immagine, si converte in non-oggetto" (E. Levinas, La realtà
e la sua ombra, Casale Monferrato, 1984, pp. 176 e 179). E tuttavia il
tentativo di accedere a questo vuoto è pericoloso, perché
la fascinazione collegata al carattere perturbante delle immagini rende
sempre possibile un'ambiguità che fa insediare, nel potere delle
immagini, le immagini del potere. Che fa immaginare, nel luogo dell'assenza,
l'assenza dell'Altro: la sua sparizione, la sua sostituzione con l'immagine.
"La funzione immaginaria, guida di vita nell'animale nella fissazione
sessuale al congenere e nella parata in cui si scatena l'atto riproduttivo,
o nella segnalazione del territorio, sembra nell'uomo interamente deviata
verso la relazione narcisistica su cui si fonda l'Io, e crea un'aggressività
le cui coordinate denotano la significazione che tenteremo di dimostrare
come l'alfa e l'omega di tale relazione. [
] Questa significazione
[
] si situa nella prospettiva dell'istinto di morte" (Lacan,
Scritti, Torino, 1974, p. 337).
È per questo che è tanto necessario pensare un campo dell'etica
privo di immagini. È per questo che sarebbe molto difficile concepire
l'arte se non se ne considera una consistenza etica indipendente da quella
visiva: e si dà il caso che la formulazione ebraica dell'etica,
alla base dell'etica occidentale, contenga un'esplicita proibizione riguardo
alla sua traduzione in immagini.
Questa proibizione pone il pensiero ebraico al riparo non solo dal potere
delle immagini, ma anche dalle immagini del potere. Se da sempre il controllo
delle immagini è stato collegato inseparabilmente all'esercizio
del potere, la possibilità tutta moderna di un'arte svincolata
dal potere apre la porta all'irruzione dell'etica come contenuto esplicito
dell'opera. È in seno a questo processo che è possibile
reinterpretare la proibizione ebraica come confine interno alla dislocazione
attuale dell'opera d'arte. La non-immagine diviene dato fondamentale dell'immagine
che non si voglia esaurire in un'immagine del potere. Di modo che l'arte
si trova ad essere ospite di due patrie: una popolata d'immagini e una
dalla quale le immagini sono precluse. Senza questo doppio status l'arte
non si reggerebbe. La doppia appartenenza dell'arte è questo continuo
tentare di raggiungere se stessa, perché i suoi due presupposti
si trovano in reciproco esilio: in un'opera d'arte il campo dell'immagine
e il campo dell'etica vengono colti nel momento di un tentativo di abbraccio
che può sembrare una lotta - a ripetizione del misterioso incontro
notturno di Giacobbe (Gn 32, 25-32).
La metafora della lotta può in effetti essere adeguata, anche ad
esemplificare il ruolo dell'artista, che riveste un'utilità teologica
del tutto particolare. Egli non si sostituisce al Creatore ripercorrendo
a contropelo l'opera della Creazione, più di quanto gli si sostituisca
lo storico, ripercorrendo a contropelo la Storia. L'immagine che appare,
a cui si risale, provocando un arresto nel discorso etico, è un'immagine
che si interpone ma anche un'immagine che rivela, che obbliga il percorso
ad un punto di vista, senza il quale l'etica paradossalmente resterebbe
cieca. Il carattere cristallino dell'immagine è in fondo il prisma
grazie al quale il significato dell'etica fa scorrere i rivoli con cui
anima il mondo - semplicemente attraverso processi creativi. E non c'è
creazione senza leggibilità, visibilità, non c'è
senso al di fuori della ricezione dei sensi. Se il mondo appare a partire
da un principio generativo che lo esprime, l'artista à rebours
imprime il mondo sullo stesso principio generativo attribuendogli un nuovo
significato, rendendo palese il significato della creatività come
critica della Creazione. È nella pratica comune, e non in astratto,
in definitiva, che l'etica pone i confini dell'estetica e l'estetica quelli
dell'etica. Ma questi confini sono continuamente mobili, e dipendono dai
passi di chi li attraversa. Fare arte significa dunque assumere la reciproca
precarietà del senso e dell'immagine e far agire l'uno sull'altra,
comprendendo il senso tra le righe dell'immagine e vedendo brillare l'immagine
tra le righe del senso, con inevitabile straniamento. E l'arte stessa
non è in definitiva compresa se non le si riconosce il patrimonio
di estraneità che apporta a chiunque, in qualunque luogo.
Ernesto Pezzi, nato a Faenza (Ravenna) nel
1967. Curatore e critico d'arte contemporanea, ha allestito mostre in
Italia e in Spagna. Da alcuni anni si interessa alle relazioni tra alcuni
aspetti della creatività contemporanea, in particolare riguardo
alle arti visive, e la cultura ebraica.
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