| Il grande regista di "Schindler's list" intervienesul dibattito a proposito dei temi della maturità
 
 LA LEZIONE SULL'OLOCAUSTO
 di Steven Spielberg
 La notizia che gli studenti liceali in Italia hanno avuto l'Olocausto 
        come tema ufficiale per la maturità è significativa. Vuol 
        dire che la storia dell'Olocausto e la sua importanza per l'educazione 
        e la tolleranza è evidentemente un'alta priorità per questa 
        e per le future generazioni di italiani. 
 Quando ho girato "Schindler's List" e ho fondato la Shoah Foundation, 
        il mio obiettivo, prima di qualunque altro, era proprio l'educazione: 
        fare in modo che il passato non fosse mai dimenticato. Per la prima volta nella mia vita ho fatto un film senza preoccuparmi 
        se avrebbe incassato al botteghino, se sarebbe piaciuto alla gente: le 
        solite cose, insomma, quelle di cui m'importava negli anni 80.
 Ho prima dovuto diventare padre per poter fare quel film, perché 
        un giorno i miei figli mi avrebbero fatto domande sull' Olocausto. Sapevo 
        che avrei dovuto rispondere a quelle domande, e io, in verità, 
        sono più bravo a comunicare attraverso un film che a parole.
 Quando ero piccolo i miei genitori mi hanno raccontato tutto dell'Olocausto. 
        Abbiamo perso otto parenti nell'Europa dell'est, ma non abbiamo mai saputo 
        quando perché sono morti nei paesi in cui i tedeschi non tenevano 
        conti accurati. Papà, mamma, i nonni non facevano altro che parlarne. 
        Sono stato allevato nell'odio per Hitler e i nazisti, e quando è 
        cominciata la produzione di "Schindler's List" ero ancora pieno di rabbia. 
        Ho fatto quel film per la gente che non sapeva nulla della Shoah, soprattutto 
        per i giovani. Nei licei americani solo il 23 % degli studenti ha sentito 
        parlare dell'Olocausto; e un altro 23 % crede che sia impossibile, che 
        non sia mai successo; il 60 %non conosce nemmeno il significato del termine 
        Olocausto. È incredibile quanta ignoranza ci sia nel mondo su un 
        fatto tanto orribile. Con iniziative come questo tema, i politici italiani 
        che si occupano di educazione hanno fatto un balzo in avanti verso il 
        raggiungimento dell' obiettivo della conoscenza. Io li ringrazio a nome 
        mio, dei sopravvissuti, e dei milioni che non sono sopravvissuti. Vi siamo 
        debitori. torna in alto "VOI CHE VIVETE SICURI..."di Michele Morrocchi
 "Chi salva una vita, salva il mondo intero", con queste parole si chiude 
        Schindler's list (la lista di Schindler) il film che Steven Spielberg, 
        ha dedicato alla storia di Oscar Schindler, un "giusto" che salvò 
        dalla morte centinaia di ebrei. Steven Spielberg, autore di film conosciutissimi 
        e di "cassetta" ci offre in più di tre ore di buon cinema una testimonianza 
        toccante che ha quasi il valore di un documento storico. Non è 
        un caso che Schindler's list sia stato il primo, e sino ad ora l'unico, 
        film trasmesso senza alcuna interruzione da una televisione statunitense, 
        condizione esclusiva che Spielberg ha imposto per la vendita dei diritti 
        televisivi in tutto il mondo. Il film assume una valenza importante anche 
        rispetto al numero di persone che lo hanno visto, soltanto in Italia la 
        trasmissione televisiva del 5 maggio si candida ad essere il programma 
        televisivo, dati auditel, più seguito dell'intera stagione, riuscendo 
        per la prima volta a sconfiggere persino la nazionale di calcio. E' indubbio 
        che un film che in tutto il mondo è stato visto da milioni di persone 
        che ha per tema quello importante della "shoah" è un documento, 
        quasi un humus collettivo, formativo delle coscienze riguardo a questo 
        argomento. Da un punto di vista cinematografico è da rilevare oltre 
        alle splendide interpretazioni di Ralph Fiennes, nel ruolo del comandante 
        nazista, di Liam Neeson, Oskar Schindler, e Ben Kingsley, l'uso magistrale 
        del bianco e nero che riesce, non distraendo lo spettatore in alcun gioco 
        cromatico, a mantenere altissimo l'interesse per più di tre ore. 
        Unica eccezione di colore un cappotto rosso, che come il sangue versato, 
        scorre attraverso la corsa di una bimba sino alla pozza di una fossa comune. 
        Non va però dimenticato che il film non presenta, cinematograficamente 
        parlando, alcun guizzo di novità: è un'opera degnissima, 
        con un altissimo contenuto morale, che ha l'intento di essere un manuale 
        emotivo di storia della "shoah".Tentativo di essere un documento storico aveva tutta l'intenzione di esserlo 
        anche la Tregua di Francesco Rosi, tratto dall'omonimo libro di Primo 
        Levi, che racconta il ritorno a casa dopo la prigionia, attraverso un 
        viaggio che ha il valore iniziatico di un ritorno alla vita, con tutte 
        le angosce e le paure della vita normale dopo la morte del campo di concentramento. 
        "E' un racconto straordinario (..) come percorso da una ventata di libertà. 
        Ma quando finalmente arriva in Italia, Levi capisce che tutti gli ultimi 
        suoi (..) vagabondaggi ai margini della civiltà sono stati una 
        tregua affettuosamente e capricciosamente concessagli dal destino." (dalla 
        nota d'apertura dell'edizione dei tascabili Ei-naudi del libro). Il film, 
        in concorso in questa edizione di Cannes quasi esclusivamente per permettere 
        a John Turturro di competere alla palma d'oro come migliore attore, ha 
        però il limite di essere più una descrizione di ciò 
        che accade, senza scavare a fondo nel ritorno alla vita e nelle sofferenze 
        di un uomo che rinasce con alle spalle la distruzione e la morte dello 
        sterminio nazista. Una serie di ricordi inalienabili, come dimostrerà 
        la stessa vicenda personale di Primo Levi.
 Altri cineasti italiani si sono cimentati col tema della prigionia e dello 
        sterminio sistematico, non solo degli ebrei, messo in atto dal regime 
        nazista: due di questi, Gillo Pontecorvo e Carlo Lizzani, hanno prodotto 
        rispettivamente, Kapò e L'oro di Roma. Kapò si inserisce 
        nel filone dei film sui campi di sterminio, e mostra il riscatto morale 
        di un'adolescente ebrea che dopo essere venuta a compromessi coi suoi 
        stessi aguzzini, aiuta i suoi compagni di sventura fino all'olocausto 
        finale. L'oro di Roma è invece ambientato nella capitale prima 
        della deportazione degli ebrei del ghetto, e mostra le vessazioni che 
        gli occupanti fascisti e nazisti impongono alla comunità ebraica. 
        Un film meno crudo e direttamente violento, ma che può servire 
        a ricordare di come italiani si siano macchiati dei peggiori crimini e 
        che lo sterminio e le leggi razziali non furono soltanto una questione 
        tedesca.
 La finzione scenica, come quella letteraria non è l'oggetto della 
        storia, ma il suo valore di testimonianza, di valore esemplare, proprio 
        perché finzione sono indiscutibili ecco perché i film che 
        fin qui ho presentato, hanno il merito di essere esempi perché 
        nessuno dimentichi.
 "Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943. Avevo 
        ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza e una decisa propensione, 
        favorita dal regime di segregazione a cui da quattro anni le leggi razziali 
        mi avevano ridotto, a vivere in un mondo scarsamente reale……"
 Primo Levi, incipit di "Se questo è un uomo"
 torna in alto SCHINDLER'S LIST Di Valerio Caprara Dal primo marzo '93, e per dodici memorabili settimane, girò la 
        trasposizione di un romanzo-verità dell'australiano Thomas Keneally, 
        "La lista", che ricostruiva in forma narrativa cinquanta testimonianze 
        di prima mano sulla tragedia dell'Olocausto. A proposito del quale lo 
        scrittore di Sidney ha dichiarato: "II mio libro e il film di Spielberg 
        cercano un punto focale per raccontare l'indicibile. Io l'avevo trovato 
        nell'aspetto industriale della Shoah: le opportunità che Schindler 
        rivolge a fin di bene, della manodopera industriale gratuita che l'imprigionamento 
        degli ebrei offriva... Sono un australiano cattolico di discendenza irlandese 
        e quindi trovo difficile capire l'antisemitismo... Ero inorridito da un 
        problema così alieno come la Shoah. Come gli scienziati di Jurassic 
        Park, ho cercato di ricostruire l'intero dinosauro attraverso una cellula, 
        e per me la cellula è stato il problema industriale". A Cracovia 
        fu costruito un enorme set, ma la Universal consentì alla troupe 
        di lavorare spesso in esterni, gli stessi del racconto. Inoltre lo scenografo 
        Allan Starski riprodusse, a partire dalla pianta originale, l'intero, 
        sinistro campo di concentramento di Plaszow, con le sue 34 baracche, 7 
        torrette di controllo e la strada centrale lastricata con tombe di ebrei. 
        La scena in cui i prigionieri scendono dal treno ed entrano nel lager 
        di Auschwitz fu girata all'esterno dello stesso campo, il cui perimetro 
        interno funge da monumento alla memoria dell'Olocausto (il Congresso mondiale 
        ebraico aveva proibito l'ingresso delle cineprese negli ambienti delle 
        camere a gas).  II film fu girato in bianco e nero, secondo la prima, irrinunciabile 
        condizione del regista, richiedendo un vero exploit al direttore della 
        fotografia Janusz Kaminski: "A causa dell'assenza di colore, mentre giravamo, 
        dovevo puntare la luce sui volti in modo da trasformarli negli elementi 
        più luminosi della scena; ho chiesto ad Allan Starski di assicurarsi 
        che le pareti fossero dipinte di una tonalità più chiara 
        o più scura rispetto ai volti presenti in scena, in modo da non 
        far confondere i volti con lo sfondo". Il budget di 23 millioni di dollari 
        era considerato a rischio dall'Universal, anche perché il bianco 
        e nero non garantiva lo sbocco in televisione e videocassetta; ma la ricerca 
        di autenticità voluta da Spielberg favorì disinteressate 
        e commoventi collaborazioni. Per esempio, dopo aver pubblicato un annuncio 
        in cui si ricercavano oggetti dell'epoca da utilizzare per ricreare la 
        scena, la troupe si ritrovò letteralmente sommersa da una marea 
        di occhiali, ombrelli, macchine per cucire, carte d'identità, valuta, 
        scarpe e vestiti e la costumista scoppiò in lacrime quando le si 
        presentò un'anziana vedova che veniva da un ospizio vicino a portare 
        i guanti che lei e suo marito avevano indossato il giorno del matrimonio. 
       Ancora la Sheppard prese a nolo mille divise a strisce da detenuto - 
        in Polonia i film sull'Olocausto sono all'ordine del giorno - ma poi le 
        dovette rovinare, tingendole di grigio perché sembrassero lise 
        e sporche. Una scena particolarmente raccapricciante era ambientata ad 
        Appelplatz, una piazza dove i prigionieri del campo di lavoro venivano 
        denudati e obbligati a correre su e giù davanti a dei dottori nazisti. 
        Ai "sani" era permesso rimanere nel campo di lavoro, mentre ali altri 
        venivano inviati ad Auschwitz. Sul set, un sopravvissuto raccontò 
        al regista che alcuni dei prigionieri, per cercare di sembrare sani, si 
        erano colorati le guance con il sangue ed allora, nel corso delle riprese, 
        Spielberg chiese a quattro attrici di pungersi le dita con un ago e di 
        usare il loro sangue. Quando vide la scena, il coproduttore Branko Lustig, 
        sopravvissuto a quattro campi di concentramento, si mise a piangere come 
        un bambino. Del resto, il regista ha raccontato di aver imparato a riconoscere 
        i numeri a tre anni: glieli insegnò uno studente di sua nonna che 
        era sopravvissuto ad Auschwitz, mostrando i numeri che i nazisti gli avevano 
        impresso a fuoco sul braccio: "Mi insegnò com'erano il due, il 
        quattro e il sette e poi faceva un trucchetto quando mi mostrava il nove: 
        rovesciava il braccio e mi diceva che era un sei". Passarono molti anni 
        prima che Steven capisse realmente quello che aveva visto: il simbolo 
        indelebile e atroce della carneficina ed il fatto che, per molti di quanti 
        erano sopravvissuti, quel simbolo era diventato una cosa prosaica. Quest'incredibile 
        duplicità, che rispecchia il contraddittorio bisogno di ricordare 
        e dimenticare, era esattamente quello che aveva in mente quando incominciò 
        a lavorare su Schindler's List, la storia angosciante ed avvincente di 
        un industriale tedesco che arrivò, in circostanze irripetibili, 
        a mettere in salvo circa mille ebrei nel periodo più atroce dell'Olocausto: 
        "Quando giravo il film in Polonia, non riuscivo a dimenticare nemmeno 
        per un attimo di trovarmi sul più grande teatro di morte della 
        storia moderna... Dopo un'infanzia vissuta nell'insicurezza, raccontare 
        l'Olocausto a un certo punto è diventata una necessità. 
        Anche se sono troppo giovane per averli vissuti direttamente, ho conosciuto 
        e patito quei fatti indirettamente, attraverso il racconto di parenti 
        ed amici. Naturalmente, rispetto al libro, abbiamo dovuto condensare molte 
        storie ma tutti gli elementi fondamentali di Schindler's List sono autentici... 
        Durante la scelta del cast abbiamo lavorato molto per cercare attori e 
        comparse capaci di comunicare la consapevolezza che ogni giorno avrebbe 
        potuto essere l'ultimo, l'incertezza di un'esistenza legata al mutevole 
        umore altrui. Sul set si era formata la coscienza di quello che stavamo 
        facendo... C'erano strane sensazioni, quasi una sofferenza. Certo, sembra 
        ridicolo parlare di sofferenza quando il termine di paragone è 
        lo sterminio nazista, e qualsiasi nostro dolore, rispetto a quello delle 
        vittime di Hitler, è come una vacanza a Miami. Ma in alcuni momenti 
        il solo ricordo dei fatti dell'Olocausto mi avviliva al punto che volevo 
        smettere le riprese e mandare tutti a casa. In ogni posto dove abbiamo 
        girato il film, tra i muri degli edifici risalenti a quell'epoca, dietro 
        le mura del ghetto che ancora oggi resistono, la memoria delle vittime 
        era viva. La macchina da presa, così, doveva essere una parte del 
        racconto e non la protagonista: il film è in bianco e nero perché 
        sono in bianco e nero i materiali, i filmati e i documentari che ho sempre 
        visto sull'Olocausto... Sono state usate al 40% macchine da presa a spalla. 
        per raccontare il più possibile gli eventi con un taglio documentaristico, 
        da cinemaverità. Non credo, infatti, che ci sarà mai un 
        libro o un film o qualsiasi altra forma di espressione in grado di rappresentare 
        il vero orrore dello sterminio nazista. Nel mio film cerco di darne un'idea, 
        voglio convincere la gente che non può voltare le spalle a quello 
        che è accaduto e fingere che esista solo il domani... Ho una coscienza 
        politica da quando sono diventato padre. Dieci anni fa, quando mi intervistavano 
        per E.T. ero fiero di dichiarare che ero politicamente agnostico, che 
        mi ero interessato ai Beatles sei anni dopo gli altri e che la guerra 
        del Vietnam mi era passata sopra la testa. Schindler's List è diverso 
        da tutto quello che ho fatto finora, forse perché ho buttato via 
        una serie di attrezzi del mestiere. Uno è la gru, l'altro è 
        il colore. Ho limitato i miei strumenti per far sì che la storia 
        fosse l'unica forza del film, senza scene a effetto - sperando che questo 
        non lo renda noioso ma girando rapidamente: da trentacinque a quaranta 
        scene al giorno. Ho girato più scene in cinque settimane per SchindIer's 
        List che negli ultimi cinque film messi in fila". Sul viale dei Giusti di Gerusalemme che conduce allo Yad Yashem, la fondazione 
        in memoria dei martiri e degli eroi, c'è un boschetto di carrubi. 
        Ogni suo albero è stato piantato da un uomo insignito dell'onorificenza 
        di Persona Retta. E fra gli altri, c'è l'albero piantato da Oskar 
        Schindler, il tedesco dei Sudeti dal fascino alla Charles Boyen, gran 
        donnaiolo, gran bevitore, grande bugiardo e salvatore di ebrei. L'aitante 
        Liam Neeson, all'inizio del film, è ripreso volutamente dal basso: 
        una figura "gigantesca", che sovrasta lo sporco grigiore dell'ambiente 
        e non si lascia definire con precisione. L'industriale, arrivato a Cracovia 
        per mettersi in affari, è un uomo tutt'altro che virtuoso, di principi 
        morali ambigui, nient'affatto disposto ad inimicarsi un regime che pure 
        deplora. Rilevando una smalteria confiscata ed usando come operai ed impiegati 
        gli ebrei concentrati nel ghetto, l'imprenditore spregiudicato spera di 
        ricavare interessanti profitti... Pur iscritto al partito ed amico personale 
        dei capi delle SS, non partecipa al fanatismo dilagante e preferisce ingaggiare 
        un duello d'astuzia con l'apparato militar-ideologico che ha blindato 
        il paese. L'intelligenza del film sta tutta in questa prospettiva mobile, 
        nell'occhio della cinepresa che prima dilata e scompone gesti e comportamenti, 
        poi s'immerge nel sottofondo di malessere e nausea e solo più tardi 
        emerge per inquadrare "a figura intera" il nuovo Schindler. Le tecniche 
        di racconto, intanto, riproducono uno dei procedimenti infallibili del 
        regista e cioè l'alternanza thrilling di buio/luce, dentro/fuori, 
        vuoto/pieno. La fotografia, preziosamente contrastata, serve perché 
        la paura, la fame, il freddo e l'odore di morte invadano platealmente 
        quel comfort esistenziale che costituisce l'unica religione di Oskar. 
        E il montaggio alternato raggiunge effetti di un'intensità degna 
        dei classici del cinema muto: l'audacia visiva determina la forza emotiva 
        più ancora del contenuto della narrazione. Mentre la colonna audio 
        (grazie anche al nuovo sistema Dts) differenzia i suoni quotidiani e realistici 
        della crudeltà e dell'orrore dalle "eccezionali" sottolineature 
        dell'accompagnamento musicale di John Williams. Notevole anche l'applicazione degli attori: Liam Neeson, fermo come una 
        roccia eppure credibile nella difficile progressione verso la pietas; 
        Ben Kingsley, straordinario nel conferire persino sfumature ironiche alla 
        figura del ragioniere ebreo Stern, diventato braccio destro (e buona coscienza) 
        di Schindler; RalphFiennes, agghiacciante come e più del Marlon Brando de I giovani 
        leoni, nel ruolo dell'aguzzino Amon Goeth. All'inizio, il frivolo Oskar 
        così giustifica l'attaccamento a Stern (già impegnato a 
        salvare i perseguitati, sia pure "nell'interesse dell'azienda"): "Nella 
        vita, secondo mio padre, servono un buon dottore, un prete indulgente 
        e un bravo contabile". Ma poi, quando il ghetto viene distrutto e gli 
        ebrei trasferiti nel campo di concentramento, comprende la necessità 
        di avvicinare Goeth, di convincerlo dell'indispensabilità della 
        mano d'opera ebraica per la fabbrica e di ammorbidirlo con attenzioni 
        e regali. Senza diventare un kamikaze filantropico ed intenzionato ad 
        abbandonare Cracovia, stila, tuttavia, insieme al fedele Stern, una lista 
        di nomi di operai con l'intento di salvarli da Auschwitz facendoli trasferire 
        in una nuova fabbrica-paravento a Brunnlitz. Spielberg non è stato, 
        certo, il primo regista ad aver messo in scena il macabro periodo ma nel 
        suo film il pathos è davvero inaudito, eroico: quando la Gestapo 
        rastrella donne e bambini, quando i corpi stramazzano al colpo della pistola 
        a bruciapelo, quando Goeth si diletta a sparare dal balcone della sua 
        villa sui suoi schiavi intenti al lavoro, quando si chiacchiera del più 
        e del meno tra un'esecuzione e l'altra. Coraggiosamente inedito nel mettere 
        in evidenza la corruttibilità degli "onnipotenti" e nell'accennare 
        ad un argomento-tabù, il collaborazionismo dei prigionieri, è 
        particolarmente efficace nel cogliere il formicolio di una folla indistinta, 
        di una massa schiacciata e, nel contempo, nello scolpire volti, espressioni, 
        caratteri che s'incidono nella memoria dello spettatore forse più 
        a fondo di quanto non abbiano potuto le celebri e tristi immagini dei 
        documentari: specialmente quando coinvolge i bambini con quella delicatezza 
        di cui lui solo è capace. Bambini strappati alle madri ed ammassati 
        in un camion (con l'immagine indimenticabile della piccina vestita di 
        rosso che spicca nel bianco e nero come un simbolo di sopravvivenza), 
        bambini nascosti nel liquame delle latrine per sfuggire al massacro, bambini 
        che si adattano ad un orrore che non capiscono con uno spirito di sopravvivenza 
        che ha del miracoloso (o del "magico", nel senso della fuga delle biciclette 
        di E.T nell'azzurro del cielo).
 La critica più sensibile valorizzò il film e non mancarono 
        le analisi sofisticate e brillanti che costruivano una rete strettissima 
        di somiglianze tra Jurassic Park e Schindler's List. L'intento, lodevole, 
        era quello di smascherare l'ipocrisia di chi aveva criminalizzato il primo 
        film per una supposta e distruttiva pericolosità culturale ed ora 
        saltava, disinvoltamente, sul carro di un artista diventato di colpo ispirato, 
        disinteressato e progressista. È verissimo, del resto, che non 
        si può deplorare il mestierante miliardario quando fa braccare 
        il povero E.T.dai cani dello sceriffo ed esaltarlo quando staglia donne lacere e terrorizzate 
        all'ombra delle ciminiere di Auschwitz: smascherarlo se fa ballare un 
        vivo con un trapassato in Always e poi incoronarlo perché dal simbolo 
        terribile della bambina uccisa e riversa sul carro e dai superstiti che 
        s'incamminano nella pianura stacca sui veri "ebrei di Schindler" che sfilano 
        davanti alla tomba del loro protettore, nei colori accesi dell'oggi, accompagnati 
        o sorretti dai rispettivi interpreti: deriderlo quando aspirava all'Oscar 
        sulle ali della felicità di immense platee popolari e laurearlo 
        sull'onda di un paio di battute elettorali di Bill Clinton. Bisogna anche 
        aggiungere, però, che il gergo dello specialismo non basta a spiegare 
        la peculiarità di Schindler's List, film che pretende a buon diritto 
        di entrare nel vivo del dibattito storico-politico. In realtà, 
        il regista non ha fatto altro che esercitare la duttilità, l'adattabilità, 
        l'eccletismo di quell"'arte industriale", preconizzata da Flaubert, di 
        cui è diventato indiscusso maestro. Regista americano nel senso 
        così bene circoscritto da Ernesto Galli Della Loggia (in un memorabile 
        articolo sul "Corriere della Sera"), sa bene che nessun film può 
        salvare il mondo ma può permettersi di esprimere, senza mistificazioni, 
        una limpida fiducia nei valori del bene, della legalità, della 
        libertà collettiva e dell'onestà individuale. Alla critica 
        che lo ha sempre considerato una figura ingombrante e fuorviante, è 
        riuscito a dimostrare di essere in grado di stravincere anche in un genere 
        diverso, più o meno a ragione considerato nobile e consacrato. 
        Viene persino voglia di chiedersi, pensando a tanti, presunti campioni 
        della poesia ineffabile e del verismo pauperistico: riuscirebbero, a ruoli 
        e budget invertiti, ad allestire in scioltezza un kolossal fantastico 
        gradito alle folle intercontinentali? Comunque, nello sterminato archivio 
        degli articoli, dei saggi, dei capitoli di libri dedicati al film prima 
        e dopo il traguardo degli Oscar, spiccano due interventi un po' meno legati 
        alle categorie della recensione.
 Per Furio Colombo: "Steven Spielberg ha rivisitato la storia e ne è 
        uscito senza ferite. È un fatto molto raro se si pensa al compito 
        che si era imposto: narrare tutto l'Olocausto usando un solo episodio, 
        la fabbrica di Schindler, e affidando la conduzione della vicenda a un 
        eroe positivo che è tedesco e nazista... Molti "ebrei di Schindler", 
        come essi stessi si definiscono, sono ancora vivi. Per quanto ne so nessuno 
        di essi, in America o Israele, ha contestato la narrazione di Spielberg. 
        Si sono fatti avanti indicando il loro nome cambiato, precisando questo 
        o quel particolare. Ma tutti hanno mostrato di essere fedeli alla memoria 
        di Schindler e affettuosamente grati della ricostruzione di Spielberg. 
        Come è possibile, visto che Schindler's List ha decisamente una 
        narrazione da grande fiaba? Una risposta la propone David Margolick, sul 
        "New York Times": "Ci voleva l'uomo dei dinosauri per rendere credibile 
        l'incredibile"... Con la storia di Schindler, non "buono", eppure unico 
        salvatore di gente perduta da una condanna accettata da tutti entra in 
        scena il regista delle storie impossibili, l'uomo del cinema che ti fa 
        credere nei mondi impossibili, ti fa commuovere con E.T., ti fa toccare 
        l'universo dello spazio e quello della preistoria. Ha ragione il critico 
        del "New York Times". Ci voleva un uomo con queste doti per rendere credibile, 
        epica, realistica, una storia che è allo stesso tempo assolutamente 
        impossibile e assolutamente vera, che sembra lontana mille anni e invece 
        appartiene alla nostra civiltà e al nostro tempo... È il 
        primo film su quei tempi fatto da qualcuno che allora non c'era, che non 
        ha visto mai la guerra se non al cinema, che conosce i soldati tedeschi 
        dalle cineteche, che si è riempito gli occhi di sequenze viste 
        in moviola ... Steven Spielberg, uomo giovane nato dopo la guerra, viene 
        avanti e dice: datemi il pacco dei documenti, tocca a me portarlo un po' 
        più avanti. Accusatelo di essere hollywoodiano, se volete, per 
        il modo abile con cui muove le masse, per il passo epico delle sue inquadrature, 
        per il montaggio incalzante, per il commento del violino di Itzak Perlman 
        che è come una riflessione continua. L'operazione, come è 
        sempre avvenuto nella storia della cultura è questa: io mi impossesso 
        di tutto quello che sappiamo di questa storia, e la racconto come so raccontarla 
        io, con l'impronta, lo stile, i modi del mio tempo. Infine c'è 
        ancora una grande lezione... Il luogo è la Polonia. Il protagonista 
        è tedesco, gli ebrei di Schindler, e tutti gli altri che si vedono 
        morire sul fondo, vengono da tutte le nazioni invase... La mano di Spielberg, 
        in questo film, come in E.T., come ne L'impero del sole, ha questo di 
        bello: non ti consente mai di dire che sei al chiuso di una sola avventura 
        accaduta in un solo luogo".  Nel più acuto commento pubblicato in Italia, Guido Fink inizia 
        col rievocare il discusso passaggio finale, quando l'ufficiale russo "libera" 
        quel migliaio di ebrei abbandonati e gli dice che, forse, c'è una 
        città che possono raggiungere dietro l'orizzonte; prima che il 
        film rifiorisca nel colore e si trasformi nella sfilata documentaristica 
        dei personaggi ormai vecchi che depongono un sassolino sulla pietra tombale 
        di Schindler: "Potrebbe sembrare una sorta di retorica passerella finale 
        ed è invece un momento straordinario... È il momento in 
        cui s'incontrano, e pur senza fondersi si rispecchiano l'una nell'altra, 
        le due anime del film: quella che il regista, per la prima volta lontano 
        dal gusto della tecnologia e del superspettacolo che gli ha dato il successo, 
        vorrebbe documentaria (in realtà le sequenze nel lager, o la sanguinosa 
        liquidazione del ghetto di Cracovia del marzo 1943, sono riprese e montate 
        con uno stile tutt'altro che neutro, che ricorda caso mai le sequenze 
        più forti e più riccamente orchestrate del cinema d'avventure 
        fordiano), e quella francamente romanzesca e hollywoodiana, al servizio 
        di una vicenda che per altro pare rigorosamente storica. Come a teatro, 
        al momento della "decompressione" e dei saluti al pubblico, gli attori 
        sono un poco rigidi, compunti: al confronto i vecchietti "veri" che danno 
        loro il braccio sono molto più disinvolti... La stessa forza espressiva 
        qui raggiunta da Spielberg, la perfetta, diabolica mescolanza di emozione 
        e di suspense contenuta nella sceneggiatura, provocheranno prevedibili 
        accuse: si parlerà di Indiana Jones contro l'Olocausto, qualcuno 
        ricorderà il monito di Elie Wiesel secondo cui una letteratura 
        ispirata al genocidio sarebbe una contraddizione in termini. Ma è 
        anche vero che fino a oggi il cinema americano non aveva veramente affrontato 
        l'argomento: prima e durante la guerra per prudenza e autocensura, poi, 
        almeno in parte per lo stesso ritegno e imbarazzo per cui scrittori come 
        Malamud, Bellow o Roth esitavano a parlare di qualcosa che gli ebrei americani 
        non avevano direttamente sperimentato. Schindler's List, film con cui 
        Spielberg cerca di guarire dalla sindrome adolescenziale di Peter Pan 
        e di interrogarsi sul senso delle proprie radici, non ha nulla a che vedere 
        con le meditazioni a carattere lirico o documentario del cinema europeo, 
        Notte e nebbia, Shoah o Il dolore e la pietà, proprio come certe 
        ricostruzioni surreali e sulfuree dell'universo concentrazionario tentate 
        di recente dalla narrativa ebraico-americana, ad esempio quella di Cynthia 
        Ozick, non somigliano alle testimonianze dirette e ai ricordi di un Primo 
        Levi o di un Jona Obierski. Ma è innegabile che l'operazione di 
        Spielberg abbia una sua coerenza, e che la sua veste formale, i suoi stessi 
        legami con la più scaltrita tradizione spettacolare del cinema 
        americano ne costituiscano, per così dire, un correlativo necessario 
        e perfetto... Quel che assolutamente non piacerà a chi conservi 
        qualche illusione sulla Storia come espressione di moralità trascendenti, 
        è il fatto che l'unica speranza di sopravvivenza si identifichi, 
        sia pure inizialmente, con la logica del capitale, per cui appare controproducente 
        affamare gli operai o mandarli nelle camere a gas; il business, come dice 
        Schindler a Goeth, non si fa così. In questo senso, Spielberg non 
        solo non rinnega i suoi film più spettacolari (né si vede 
        perché dovrebbe farlo), ma non rinnega nemmeno Hollywood, anzi 
        ne ribadisce l'insostituibile funzione come ultima frontiera e metaforica 
        conservazione a futura memoria, di tutte le narrazioni possibili: anche 
        le più dolorose e remote, anche quelle più apparentemente 
        antitetiche alla natura dell'entertainment. E al termine di questo film 
        - comunque bellissimo - è forse proprio a Hollywood che gli ebrei 
        di Schindler si dirigono, quando si incamminano in quella pianura deserta, 
        alla ricerca di una città".  In effetti, la forza del film sta nella sua epigrafe ideale: non è 
        necessario essere santi per fare del bene. A conferma implicita di ciò 
        che rende omogeneo e vincente il rapporto del cinema Usa con la cultura 
        patria. In Schindler's List la sinergia di ambientazione europea, soggetto 
        europeo e "democrazia dell'eroismo" peculiarmente americana (con tanto 
        di sottolineatura del valore dell'intraprendenza, della genialità 
        e del sacrificio individuali, contrapposto all'imbelle inefficacia dei 
        progetti salvifici universali) ha saputo raccontare l'irraccontabile e 
        fatto pulsare il senso ultimo della Shoah. L'erede delle novecentesche 
        utopie assassine, l'odierno integralista - sembra suggerirci Spielberg 
        - è chi vuol creare comunità ideali, buone e pure, al di 
        fuori delle quali tutto è malvagio. Così nascono i miti 
        del proletariato, della razza o della nazione di cui la "purificazione 
        etnica" serba è l'esempio più vistoso. La sera di lunedì 
        21 marzo 1994 la leggenda del piccolo Steven, il ragazzino che tentò 
        d'ingoiare un minuscolo microprocessore - il rivoluzionario dispositivo 
        dei computer odierni - col quale il padre, ingegnere elettronico, aveva 
        voluto sorprendere la famiglia, si è perfettamente, circolarmente 
        conclusa in storia. Annunciati da Whoopi Goldberg, proprio la brillante 
        attrice lanciata da Il colore viola, ben dieci Oscar furono assegnati 
        a Spielberg: sette per Schindler's List e tre per Jurassic Park. Al primo 
        film, in particolare, andarono le statuette di miglior film, migliore 
        regia, miglior fotografia, miglior soggetto non originale, migliore colonna 
        sonora, miglior montaggio, migliore scenografia: un trionfo. Sul palcoscenico 
        del Chandler Pavillon di Los Angeles, Harrison Ford consegnò la 
        più prestigiosa al regista che lo aveva lanciato e Steven, con 
        un sincero groppo alla gola, dedicò il trofeo così a lungo 
        e strenuamente sognato ai sei milioni di ebrei morti nei campi di concentramento, 
        implorando gli insegnanti del suo paese "affinché non riducano 
        l'Olocausto a una semplice nota a pié di pagina della Storia". 
       Il perbenistico zio Oscar, comunque, non aveva proprio potuto fare a 
        meno di sfiorare lo Spielberg n° 2, il prestidigitatore dell'immaginario 
        ritenuto un criminale, o quasi, dal khomeinismo euro-corporativo, assegnando 
        le tre medaglie tecniche a Jurassic Park. Ma anche nella furbesca e diplomatica 
        sproporzione s'intravede un assioma vincente: il linguaggio cinematografico 
        è uno solo e puòmettere lo spettatore in crisi con se stesso ovvero fornirgli magnifiche 
        consolazioni; può stabilire un "patto" col fruitore ingenuo o soltanto 
        col fruitore critico: il meglio è quando ci riesce con entrambi. 
        Non c'è nulla di sconveniente nell'aggiungere un corollario alla 
        sfida vinta dall'ex Golden Boy: adattare il talento all'argomento è 
        stato il viatico per meritarsi il titolo ufficiale di "autore". Come non 
        sottintende alcuna malignità ricordare la forte spinta impressa 
        al film dalle lobbies ebraiche, tra le più autorevoli ed influenti 
        degli Usa. Si sa, del resto, che con le sue diecimila pellicole e cinquemila 
        videocassette, l'archivio filmico "Steven Spielberg" è oggi la 
        più completa testimonianza della storia degli ebrei nel mondo: 
        creato a Gerusalemme nel '69, per opera di uno storico dell'Hebrew University, 
        l'archivio ricevette una ingente donazione da Spielberg e prese il nome 
        del regista americano. Tra le varie collezioni è di grande importanza 
        quella chiamata "Holocaust", per la quale fu siglato un accordo tra il 
        Ghetto Fighters' Museum, maggiore centro di ricerca israeliano sull'Olocausto 
        e l'Archivio Spielberg affinché tutto il materiale appartenente 
        a questa istituzione fosse trasferito nella cineteca. Negli anni, poi, 
        le organizzazioni ebraiche di tutto il mondo hanno procurato all'archivio 
        copia dei loro film e tutte quelle istituzioni israeliane che non hanno 
        la possibilità di conservare le proprie pellicole lo hanno eletto 
        a deposito ufficiale e centro di consultazione (i suoi terminali sono 
        collegati al sistema informatico del Centro Computer dell'Hebrew University 
        e a quello bibliografico dell'Institute of Contemporary Jewry).
 torna in alto "SCHINDLER'S LIST" di Massimo Cavallini "La guerra è finita e la Germania l'ha perduta. lo sono un tedesco, 
        un profittatore di guerra ed un membro dei partito nazista. Mi scuserete 
        dunque se, a questo punto, vado a preparare i miei bagagli". Con queste 
        parole, ormai sul finire dell'ultimo acclamatissimo film di Steven Spielberg, 
        Oskar Schindler ufficialmente si congeda dai prigionieri ebrei del campo 
        di lavoro da lui diretto. Appena il tempo, ancora, per vedere la sua auto 
        sovraccarica allontanarsi nella notte. E per assistere, cambiato completamente 
        scenario, alla sequenza finale della pellicola. Non più in bianco 
        e nero, questa volta, ma negli "splendori del Technicolor". Non più 
        nella perenne penombra della Polonia dei campi di sterminio, ma sotto 
        il sole mediterraneo della Gerusalemme di oggi. Dove quegli stessi prigionieri 
        - o, più spesso, i loro figli - rendono compunto omaggio alla tomba 
        di quel tedesco nazista e profittatore di guerra. All'uomo che li aveva 
        salvati.  "Schindler's list, la lista di Schindler, è in fondo soprattutto 
        questo: la storia di una strana conversione. Ed il tratto più originale 
        ed interessante dei film sta, probabilmente, proprio nel fatto che una 
        tale metamorfosi - da villano a salvatore - sembra attraversare il protagonista 
        senza trasfigurarlo né modificarlo. Poiché tra l'Oskar Schindler 
        che s'arricchisce alle spalle degli ebrei perseguitati e quello che, alla 
        fine, si rovina per salvarli dalla prigionia e dalla morte, non corrono, 
        almeno in superficie, molte differenze. Schindler era - e resta lungo 
        tutto l'arco della pellicola - uno spregiudicato bon vivant, un "antieroe" 
        che dalla propria relazione col mondo pretende soprattutto soldi, belle 
        donne e champagne. E che proprio per questo suo edonistico amore alla 
        vita sembra essere - nella visione di Spielberg - il più perfetto 
        antidoto della follia nazista.  La storia di SchindIer e della sua lista - già raccontata dodici 
        anni fa in un libro dello scrittore australiano Thomas Kenneally - comincia 
        il giorno in cui, subito dopo l'invasione nazista della Polonia, il protagonista 
        giunge a Cracovia deciso come lui stesso dice - "a cavalcare la bella 
        donna che più può cambiare, in meglio o in peggio, la vita 
        d'ogni uomo: la guerra". L'immensa tragedia che sta per sconvolgere il 
        mondo non è, per lui, che un'occasione per tradurre in prassi la 
        filosofia cui più ispira la propria esistenza: guadagnare molti 
        soldi, guadagnarli possibilmente alle spalle dell'altrui lavoro e spenderli 
        per il proprio piacere. Non è, Oskar Schindler, né un nazista 
        né un antisemita. E' soltanto un opportunista, uno speculatore 
        deciso a collocarsi saldamente sulla sella del "cavallo vincente" ed a 
        costruire le proprie fortune sulle disgrazie degli ebrei polacchi. Forte 
        della propria contiguità con le autorità naziste - e sfruttando 
        capitale e lavoro delle vecchie élites giudaiche ora perseguitate 
        e rinserrate nel ghetto - avvia una fabbrica metallurgica. "Noi ci mettiamo 
        i soldi e la manodopera - gli chiede un giorno irritato il suo capocontabile 
        ebreo -. E lei che cosa ci mette?'. "L'immagine", gli risponde Schindler 
        ammiccante e sfacciato. La "svolta" - una svolta graduale e quasi impercettibile - avviene allorché, 
        attorno all'avviato e proficuo tran-tran degli "affari di guerra" di Herr 
        Schindier, gli eventi cominciano a precipitare. Dall'alto delle colline 
        che circondano Cracovia, durante una gita a cavallo, Oskar assiste all'evacuazione 
        del ghetto ed all'inizio della deportazione verso i campi di sterminio. 
        E nella sorte d'una bambina dall'abito rosa - unica poetica e tragica 
        macchia dì colore nel bianco e nero del film - vede finalmente 
        riflessa la logica di morte del nazismo, la crudeltà insensata 
        di quella persecuzione contro un popolo. Poco più tardi lui stesso 
        viene brevemente arrestato, per quello che considerava il più benefico 
        e naturale dei gesti: baciare in pubblico una donna ebrea. E da speculatore 
        diviene salvatore. Nella sua vita cambia tutto e, al tempo stesso, non 
        cambia nulla. Non cambia nulla perché, imperterrito e gioviale, 
        Oskar continua a frequentare ed a corrompere, con donne e danaro, i gerarchi 
        nazisti (primo fra tutti il sinistro Amori Goeth, sanguinario capo del 
        campo di lavoro di F'Iaszow). E cambia tutto perché il suo unico 
        e sempre più ossessivo scopo è, ora, quello di sottrarre 
        vite umane all'immensa macchina di sterminio messa in moto dal regime 
        che ha fin qui servito, dalla "bella donna" che, un tempo, aveva cinicamente 
        sperato di sedurre. Alla fine la lista di Schindler" arriverà ad 
        includere 1200 nomi, il più alto numero di ebrei mai salvati, durante 
        l'ultima guerra, da un solo individuo. E grande resterà, per sempre, 
        la gratitudine degli Schindlerjude. "Noi - scriveranno nel '61, 
        durante il processo ad Eichmati - non dimentichiamo le pene d'Egitto, 
        non dimentichiamo Haman e non dimentichiamo Hitler. Per questo, tra gli 
        ingiusti non dimentichiamo il giusto. Non dimentichiamo Oskar Schindier". Resta ovviamente, alla fine di questa vicenda insieme nobile ed ambigua, 
        una domanda senza risposta. La stessa che - come riferisce nel suo libro 
        Thomas Kenneally - un giornalista rivolse a suo tempo al medesimo Oskar 
        Schindler. "Come spiega il fatto - gli chiese - che durante il massacro 
        degli ebrei lei continuasse ad intrattenere intimi rapporti con tutti 
        i capi delle SS tedesche in Polonia?". SchindIer se la cavò, in 
        quell'occasione, con una battuta brillante e spiritosa. In quegli anni 
        - replicò da par suo - sarebbe stato difficile discutere il destino 
        degli ebrei con il rabbino capo di Gerusalemme".  Sagge parole. Sagge e tuttavia, ancora una volta, prive d'un vero alito 
        di ribellione. Schindler ha salvato vite umane. Ne ha salvate molte con 
        la pragmatica furbizia del giunco capace di piegarsi sotto la corrente 
        impetuosa della morte. Ma mai si è davvero posto il problema di 
        fermare la corrente, di spezzare la macchina sanguinaria del nazismo. 
       E certo è che, per quanto lunga fosse diventata la sua "lista", 
        ben poco essa avrebbe cambiato della realtà del genocidio in corso. 
        Quella della "Schindler's list rimane - nella vita reale e nel film di 
        Spielberg - una bella storia. Ma non tutta la storia. E non quella, forse, 
        che più aiuta a capire.  torna in alto SCHINDLER'S LIST, TRA FICTION E STORIAdi Maria Pelizzatti
 Nel giorno in cui Gerusalemme ha celebrato la Giornata della Memoria, 
        anche la Rai ha reso omaggio alla ricorrenza creando un evento mediatico 
        straordinario. La programmazione della Prima Rete di lunedì 5 maggio 
        è stata infatti quasi interamente dedicata alla commemorazione 
        della Shoah, lo sterminio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. 
        In una sorta di intensa ed emozionante staffetta-cavalcata, fin dalla 
        mattinata sullo schermo sono passate immagini delle camere a gas, dei 
        genocidi, storie di bambini ebrei che vissero la tragedia della discriminazione 
        razziale, interviste ai sopravvissuti ai campi. Quindi alle 21, preceduta 
        da uno special di Gad Lerner, è stata proiettata, in prima visione, 
        la pellicola di Steven Spielberg "Schindler’s List", che nel 
        ’94 alla cerimonia degli Oscar si aggiudicò sette statuette. Il 
        film, stando alle rilevazioni Auditel, ha ottenuto un clamoroso ascolto 
        di oltre 12 milioni di telespettatori (dato che lo colloca tra le prime 
        venti posizioni delle pellicole più viste). L’iniziativa della 
        Rai non solo ha incontrato il consenso del pubblico, ma ha anche ottenuto 
        l’apprezzamento e il plauso da parte di Tullia Zevi, presidente dell’Unione 
        delle Comunità Ebraiche, di Elio Toaff rabbino capo di Roma, e 
        di esponenti del mondo politico, primo fra tutti Walter Veltroni. Tutti 
        concordi nel sostenere l’importanza della commemorazione, in un momento 
        di pericoloso revisionismo (vedi le dichiarazioni di Vittorio Emanuele 
        sulle leggi razziali, i cori di Padova contro i due calciatori nigeriani 
        e altri tristi episodi), e soprattutto la necessità che anche i 
        più giovani conoscano una delle pagine più drammatiche e 
        vergognose della storia del nostro secolo. Vi è stato però 
        anche chi, pur apprezzando l’ampio spazio dedicato alla commemorazione 
        dello Shoah, ha espresso dei dubbi riguardo alla scelta della pellicola 
        di Spielberg. Lo storico Raul Hilberg, in un' intervista rilasciata al 
        Corriere della Sera, sostiene che Schindler’s List "non 
        è un film sullo sterminio degli ebrei. E’ soltanto la storia di 
        una persona, per di più scandita da alcune inesattezze. Ci vuole 
        ben altro per raccontare l’annientamento di un popolo". Lo studioso 
        è convinto che "la Storia, quella con la "S" maiuscola, non 
        va confusa con la cronaca romanzata di una vita". In effetti la pellicola 
        di Spielberg può essere considerata la cronaca romanzata di una 
        vita, dal momento che è tutta incentrata sulla storia di Oskar 
        Schindler, piccolo industriale tedesco, che nel 1939, all’indomani dell’invasione 
        della Polonia da parte dei nazisti, giunge a Cracovia con l’intenzione 
        di arricchirsi sfruttando la manodopera a basso costo degli ebrei in una 
        fabbrica di vasellame. Pian piano, colpito dalla ferocia dei persecutori, 
        scopre quasi inavvertitamente un senso di solidarietà, la spinta, 
        quasi una esigenza interiore, a far qualcosa per un altro. La sua "missione" 
        diventa dunque quella di salvare i suoi operai dallo sterminio. Si ridurrà 
        in povertà, ma per merito suo, 1100 ebrei (quelli della lista) 
        destinati ai campi di sterminio, sopravviveranno alla guerra. Il film 
        si apre e si chiude con l’omaggio dei veri superstiti alla tomba del vero 
        Schindler a Gerusalemme. Spielberg si sottrae al rischio di offrirci una 
        descrizione agiografica del protagonista, rappresentandolo anzi come un 
        donnaiolo, filonazista, senza scrupoli. Non un santo, non un eroe, ma 
        un uomo comune, un Giusto. Il film può essere letto, o meglio visto, 
        semplicemente come la "cronaca romanzata di una vita", secondo 
        il suggerimento di Hilberg. Ma sono del parere che ci sia di più. 
        Il regista costruisce, intorno alla storia di Schindler, un affresco straordinario, 
        di larghissimo respiro, di grande forza. Contribuisce senza dubbio a questo, 
        l’utilizzo del bianco e nero (un tentativo di assimilarlo ai documenti 
        dell’epoca), tecnica che si rivela di singolare potenza e intensità. 
        Unica indimenticabile macchia di colore e il cappottino rosso della bambina, 
        che attira l’attenzione del protagonista mentre cerca di sfuggire, nascondendosi, 
        ai tedeschi. E la macchina da presa la segue su per le scale di un edificio 
        (non è più Schindler a vederla, siamo noi). Una specie di 
        segno distintivo che attira l’attenzione del protagonista, che guarda 
        da lontano la scena. Rivedrà, nel campo di concentramento, quello 
        stesso cappotto, sul corpicino morto. Questa macchia di colore sintetizzando 
        il significato del film, ne costituisce la molla drammaturgica, e spiega 
        la ragione della svolta nella vita di Schindler. Di notevole impatto emotivo 
        anche le scene relative alla liquidazione del ghetto il 13 marzo 1943 
        (a mio avviso le più belle e riuscite). "Schindler’s List" 
        è senza dubbio un gran film romanzesco, un grande melodramma. Chi 
        gli contrappone le austere immagini girate dall’inglese Sydney Bernstein 
        nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, all’indomani dell’arrivo 
        degli alleati, dimentica che qui siamo in piena fiction, che, in quanto 
        tale, non può essere paragonata al documento. Ha sicuramente ragione 
        Hilberg quando suggerisce di non confondere quanto si vede nella pellicola 
        con la Storia. Tuttavia se il film, con la sua ricostruzione storica romanzata 
        che riesce a dosare opportunamente memoria, dolore ed emozione, ha il 
        merito di toccare il cuore e la coscienza dello spettatore, di ricordargli 
        le peggiori atrocità del ventesimo secolo, ha ottenuto un buon 
        risultato. Questo è quanto si proponeva Steven Spielberg accingendosi 
        ad un’opera di tale portata. Commentando i sette Oscar vinti, il regista 
        non ha perso l’occasione per lanciare un monito: "Non lasciate che 
        l’Olocausto sia una semplice nota a pie’ di pagina della storia. Siate 
        attenti agli echi dei fantasmi, insegnatelo nelle vostre scuole".
 
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          |   Molto umano  
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          | Roberto, 20 anni, Maglie (LE). 
           | (10 Settembre 2002) 
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          |   
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          | Sinceramente ero un po' indeciso se vedere o no questo film dal 
              momento che lo sterminio degli ebrei è un argomento che mi 
              fa accapponare la pelle; poi però ho deciso di vederlo e 
              devo dire che ne è valsa veramente la pena; steven spielberg 
              è e rimarrà il mio regista preferito dato che i suoi 
              film riesce a farteli vivere, a farti sentire il protagonista del 
              film; in questo poi ha saputo trattare il tema purtroppo molto triste 
              dell'olocausto dei sei milioni di ebrei in un modo impareggiabile; 
              inoltre c'è davvero da elogiare liam neeson per la sua favolosa 
              interpretazione del personaggio di oscar schindler: un'uomo ricco 
              sfondato, appassionato del buon cibo, delle belle donne, egocentrico, 
              e inoltre iscritto al partito nazista; naturalmente non ci si aspetta 
              certo da un uomo con questo profilo il gesto di profonda umanità 
              che poi compierà nel corso del film e cioè salvare 
              1000 ebrei da una morte sicura e atroce nei campi di sterminio; 
              per farla breve questo film è qualcosa di indescrivibile 
              poichè riesce a trasmetterti gli orrori del nazismo in maniera 
              abbastanza realistica (basti pensare ad amon goeth, il generale 
              nazista, che non ha un briciolo di rispetto per la vita umana poichè 
              si alza la mattina e prima di prendersi il caffè uccide due 
              persone con un fucile dal balconcino della sua villa); su questo 
              film ci sarebbe da parlare per un giorno intero ma purtroppo i caratteri 
              disponibili non sono molti e quindi devo stringere un po'; voglio 
              solo fare una piccola precisazione sulla conclusione; la scena di 
              schindler che scoppia a piangere davanti a tutti gli operai che 
              ha salvato dicendo che ne avrebbe potuto salvare almeno uno vendendo 
              anche la spilla d'argento con la svastica è molto bella e 
              a dir poco commovente; solo che se da un punto di vista cinematografico 
              questa scena è davvero molto bella, non si può dire 
              lo stesso da un punto di vista umano; infatti da oscar,un uomo molto 
              forte caratterialmente non credo che ci si sarebbe aspettata una 
              reazione di quel tipo; ma d'altra parte è un essere umano 
              anche lui; concludo rivolgendo una frase a tutti coloro che hanno 
              visto questo film e che di conseguenza considerano i nazisti delle 
              bestie e non degli esseri umani: non dimenticate!!!!!!!! 
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          | se questo non e' un capolavoro.....  
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          | Dea, 15 anni, prov.roma. 
           | (9 Settembre 2002) 
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          | Non ho mai pianto tanto per un film quanto per questo e x "la vita 
              e' bella" di Benigni.... Questo film tocca nel profondo, magari 
              alcuni lo troveranno crudo ma mai quanto possa esserla stata la 
              realta'.Il finale e' superbo e le lacrime ti sgorgano da sole...e 
              quella bambina dal cappottino rosso... Se reggete vedetelo!! Altrimenti 
              consiglio a tutti gli altri di continuare a guardare "Superquark" 
              o "Indiana Jones"... 
           |  
 
         
          | Vandalismo in un cimitero  
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          | Fabio, 14 anni, Bari 
           | (24 Agosto 2002) 
           |   
          |   
           |   
          | Mediocre, mediocre, mediocre. Vorrebbe far riflettere, ma fallisce. 
              Vorrebbe far commuovere, ma fallisce. A tratti vorrebbe far sorridere, 
              ma fallisce. Il bianco e nero vorrebbe essere un'idea originale, 
              ma fallisce. Liam Neeson è poco espressivo, idem gli altri 
              attori. Le musiche sono degne della peggior Marlene Dietrich feat. 
              Leone Di Lernia. Spielberg sembra proprio esersi montato la testa, 
              ora che è ricco, e i capolavori come "Lo squalo", "Duel", 
              e alla serie "Indiana Jones" sembrano lontani anni luce. E alla 
              fine cosa resta? un gruppo di arteriosclerotici che scrivono i propri 
              nomi sulla tomba di Schindler (Ma questo è vandalismo!!!!! 
              Al confronto, "Dobermann" è più educativo di Superquark!!!!!). 
              I conclusione, fiasco su tutti i fronti (visto che parliamo di guerre...), 
              e tre ore che potevano essere spese (insieme ai soldi della cassetta), 
              per altro di più interessante. Personalmente, mi ha lasciato 
              indifferente. 
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          | Incredibile !!!!  
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          | Saccowar, 16 anni, Torino. 
           | (18 Agosto 2002) 
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          | Davvero splendido, curato in tutti i dettagli! ottimo è 
              dire poco. 
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