SCHINDLER'S LIST

Il grande regista di "Schindler's list" interviene
sul dibattito a proposito dei temi della maturità


LA LEZIONE SULL'OLOCAUSTO
di Steven Spielberg

La notizia che gli studenti liceali in Italia hanno avuto l'Olocausto come tema ufficiale per la maturità è significativa. Vuol dire che la storia dell'Olocausto e la sua importanza per l'educazione e la tolleranza è evidentemente un'alta priorità per questa e per le future generazioni di italiani.

Quando ho girato "Schindler's List" e ho fondato la Shoah Foundation, il mio obiettivo, prima di qualunque altro, era proprio l'educazione: fare in modo che il passato non fosse mai dimenticato.
Per la prima volta nella mia vita ho fatto un film senza preoccuparmi se avrebbe incassato al botteghino, se sarebbe piaciuto alla gente: le solite cose, insomma, quelle di cui m'importava negli anni 80.
Ho prima dovuto diventare padre per poter fare quel film, perché un giorno i miei figli mi avrebbero fatto domande sull' Olocausto. Sapevo che avrei dovuto rispondere a quelle domande, e io, in verità, sono più bravo a comunicare attraverso un film che a parole.

Quando ero piccolo i miei genitori mi hanno raccontato tutto dell'Olocausto. Abbiamo perso otto parenti nell'Europa dell'est, ma non abbiamo mai saputo quando perché sono morti nei paesi in cui i tedeschi non tenevano conti accurati. Papà, mamma, i nonni non facevano altro che parlarne. Sono stato allevato nell'odio per Hitler e i nazisti, e quando è cominciata la produzione di "Schindler's List" ero ancora pieno di rabbia. Ho fatto quel film per la gente che non sapeva nulla della Shoah, soprattutto per i giovani. Nei licei americani solo il 23 % degli studenti ha sentito parlare dell'Olocausto; e un altro 23 % crede che sia impossibile, che non sia mai successo; il 60 %non conosce nemmeno il significato del termine Olocausto. È incredibile quanta ignoranza ci sia nel mondo su un fatto tanto orribile. Con iniziative come questo tema, i politici italiani che si occupano di educazione hanno fatto un balzo in avanti verso il raggiungimento dell' obiettivo della conoscenza. Io li ringrazio a nome mio, dei sopravvissuti, e dei milioni che non sono sopravvissuti. Vi siamo debitori.

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"VOI CHE VIVETE SICURI..."
di Michele Morrocchi

"Chi salva una vita, salva il mondo intero", con queste parole si chiude Schindler's list (la lista di Schindler) il film che Steven Spielberg, ha dedicato alla storia di Oscar Schindler, un "giusto" che salvò dalla morte centinaia di ebrei. Steven Spielberg, autore di film conosciutissimi e di "cassetta" ci offre in più di tre ore di buon cinema una testimonianza toccante che ha quasi il valore di un documento storico. Non è un caso che Schindler's list sia stato il primo, e sino ad ora l'unico, film trasmesso senza alcuna interruzione da una televisione statunitense, condizione esclusiva che Spielberg ha imposto per la vendita dei diritti televisivi in tutto il mondo. Il film assume una valenza importante anche rispetto al numero di persone che lo hanno visto, soltanto in Italia la trasmissione televisiva del 5 maggio si candida ad essere il programma televisivo, dati auditel, più seguito dell'intera stagione, riuscendo per la prima volta a sconfiggere persino la nazionale di calcio. E' indubbio che un film che in tutto il mondo è stato visto da milioni di persone che ha per tema quello importante della "shoah" è un documento, quasi un humus collettivo, formativo delle coscienze riguardo a questo argomento. Da un punto di vista cinematografico è da rilevare oltre alle splendide interpretazioni di Ralph Fiennes, nel ruolo del comandante nazista, di Liam Neeson, Oskar Schindler, e Ben Kingsley, l'uso magistrale del bianco e nero che riesce, non distraendo lo spettatore in alcun gioco cromatico, a mantenere altissimo l'interesse per più di tre ore. Unica eccezione di colore un cappotto rosso, che come il sangue versato, scorre attraverso la corsa di una bimba sino alla pozza di una fossa comune. Non va però dimenticato che il film non presenta, cinematograficamente parlando, alcun guizzo di novità: è un'opera degnissima, con un altissimo contenuto morale, che ha l'intento di essere un manuale emotivo di storia della "shoah".
Tentativo di essere un documento storico aveva tutta l'intenzione di esserlo anche la Tregua di Francesco Rosi, tratto dall'omonimo libro di Primo Levi, che racconta il ritorno a casa dopo la prigionia, attraverso un viaggio che ha il valore iniziatico di un ritorno alla vita, con tutte le angosce e le paure della vita normale dopo la morte del campo di concentramento. "E' un racconto straordinario (..) come percorso da una ventata di libertà. Ma quando finalmente arriva in Italia, Levi capisce che tutti gli ultimi suoi (..) vagabondaggi ai margini della civiltà sono stati una tregua affettuosamente e capricciosamente concessagli dal destino." (dalla nota d'apertura dell'edizione dei tascabili Ei-naudi del libro). Il film, in concorso in questa edizione di Cannes quasi esclusivamente per permettere a John Turturro di competere alla palma d'oro come migliore attore, ha però il limite di essere più una descrizione di ciò che accade, senza scavare a fondo nel ritorno alla vita e nelle sofferenze di un uomo che rinasce con alle spalle la distruzione e la morte dello sterminio nazista. Una serie di ricordi inalienabili, come dimostrerà la stessa vicenda personale di Primo Levi.
Altri cineasti italiani si sono cimentati col tema della prigionia e dello sterminio sistematico, non solo degli ebrei, messo in atto dal regime nazista: due di questi, Gillo Pontecorvo e Carlo Lizzani, hanno prodotto rispettivamente, Kapò e L'oro di Roma. Kapò si inserisce nel filone dei film sui campi di sterminio, e mostra il riscatto morale di un'adolescente ebrea che dopo essere venuta a compromessi coi suoi stessi aguzzini, aiuta i suoi compagni di sventura fino all'olocausto finale. L'oro di Roma è invece ambientato nella capitale prima della deportazione degli ebrei del ghetto, e mostra le vessazioni che gli occupanti fascisti e nazisti impongono alla comunità ebraica. Un film meno crudo e direttamente violento, ma che può servire a ricordare di come italiani si siano macchiati dei peggiori crimini e che lo sterminio e le leggi razziali non furono soltanto una questione tedesca.
La finzione scenica, come quella letteraria non è l'oggetto della storia, ma il suo valore di testimonianza, di valore esemplare, proprio perché finzione sono indiscutibili ecco perché i film che fin qui ho presentato, hanno il merito di essere esempi perché nessuno dimentichi.
"Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943. Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza e una decisa propensione, favorita dal regime di segregazione a cui da quattro anni le leggi razziali mi avevano ridotto, a vivere in un mondo scarsamente reale……"
Primo Levi, incipit di "Se questo è un uomo"

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SCHINDLER'S LIST

Di Valerio Caprara

Dal primo marzo '93, e per dodici memorabili settimane, girò la trasposizione di un romanzo-verità dell'australiano Thomas Keneally, "La lista", che ricostruiva in forma narrativa cinquanta testimonianze di prima mano sulla tragedia dell'Olocausto. A proposito del quale lo scrittore di Sidney ha dichiarato: "II mio libro e il film di Spielberg cercano un punto focale per raccontare l'indicibile. Io l'avevo trovato nell'aspetto industriale della Shoah: le opportunità che Schindler rivolge a fin di bene, della manodopera industriale gratuita che l'imprigionamento degli ebrei offriva... Sono un australiano cattolico di discendenza irlandese e quindi trovo difficile capire l'antisemitismo... Ero inorridito da un problema così alieno come la Shoah. Come gli scienziati di Jurassic Park, ho cercato di ricostruire l'intero dinosauro attraverso una cellula, e per me la cellula è stato il problema industriale". A Cracovia fu costruito un enorme set, ma la Universal consentì alla troupe di lavorare spesso in esterni, gli stessi del racconto. Inoltre lo scenografo Allan Starski riprodusse, a partire dalla pianta originale, l'intero, sinistro campo di concentramento di Plaszow, con le sue 34 baracche, 7 torrette di controllo e la strada centrale lastricata con tombe di ebrei. La scena in cui i prigionieri scendono dal treno ed entrano nel lager di Auschwitz fu girata all'esterno dello stesso campo, il cui perimetro interno funge da monumento alla memoria dell'Olocausto (il Congresso mondiale ebraico aveva proibito l'ingresso delle cineprese negli ambienti delle camere a gas).

II film fu girato in bianco e nero, secondo la prima, irrinunciabile condizione del regista, richiedendo un vero exploit al direttore della fotografia Janusz Kaminski: "A causa dell'assenza di colore, mentre giravamo, dovevo puntare la luce sui volti in modo da trasformarli negli elementi più luminosi della scena; ho chiesto ad Allan Starski di assicurarsi che le pareti fossero dipinte di una tonalità più chiara o più scura rispetto ai volti presenti in scena, in modo da non far confondere i volti con lo sfondo". Il budget di 23 millioni di dollari era considerato a rischio dall'Universal, anche perché il bianco e nero non garantiva lo sbocco in televisione e videocassetta; ma la ricerca di autenticità voluta da Spielberg favorì disinteressate e commoventi collaborazioni. Per esempio, dopo aver pubblicato un annuncio in cui si ricercavano oggetti dell'epoca da utilizzare per ricreare la scena, la troupe si ritrovò letteralmente sommersa da una marea di occhiali, ombrelli, macchine per cucire, carte d'identità, valuta, scarpe e vestiti e la costumista scoppiò in lacrime quando le si presentò un'anziana vedova che veniva da un ospizio vicino a portare i guanti che lei e suo marito avevano indossato il giorno del matrimonio.

Ancora la Sheppard prese a nolo mille divise a strisce da detenuto - in Polonia i film sull'Olocausto sono all'ordine del giorno - ma poi le dovette rovinare, tingendole di grigio perché sembrassero lise e sporche. Una scena particolarmente raccapricciante era ambientata ad Appelplatz, una piazza dove i prigionieri del campo di lavoro venivano denudati e obbligati a correre su e giù davanti a dei dottori nazisti. Ai "sani" era permesso rimanere nel campo di lavoro, mentre ali altri venivano inviati ad Auschwitz. Sul set, un sopravvissuto raccontò al regista che alcuni dei prigionieri, per cercare di sembrare sani, si erano colorati le guance con il sangue ed allora, nel corso delle riprese, Spielberg chiese a quattro attrici di pungersi le dita con un ago e di usare il loro sangue. Quando vide la scena, il coproduttore Branko Lustig, sopravvissuto a quattro campi di concentramento, si mise a piangere come un bambino. Del resto, il regista ha raccontato di aver imparato a riconoscere i numeri a tre anni: glieli insegnò uno studente di sua nonna che era sopravvissuto ad Auschwitz, mostrando i numeri che i nazisti gli avevano impresso a fuoco sul braccio: "Mi insegnò com'erano il due, il quattro e il sette e poi faceva un trucchetto quando mi mostrava il nove: rovesciava il braccio e mi diceva che era un sei". Passarono molti anni prima che Steven capisse realmente quello che aveva visto: il simbolo indelebile e atroce della carneficina ed il fatto che, per molti di quanti erano sopravvissuti, quel simbolo era diventato una cosa prosaica. Quest'incredibile duplicità, che rispecchia il contraddittorio bisogno di ricordare e dimenticare, era esattamente quello che aveva in mente quando incominciò a lavorare su Schindler's List, la storia angosciante ed avvincente di un industriale tedesco che arrivò, in circostanze irripetibili, a mettere in salvo circa mille ebrei nel periodo più atroce dell'Olocausto: "Quando giravo il film in Polonia, non riuscivo a dimenticare nemmeno per un attimo di trovarmi sul più grande teatro di morte della storia moderna... Dopo un'infanzia vissuta nell'insicurezza, raccontare l'Olocausto a un certo punto è diventata una necessità. Anche se sono troppo giovane per averli vissuti direttamente, ho conosciuto e patito quei fatti indirettamente, attraverso il racconto di parenti ed amici. Naturalmente, rispetto al libro, abbiamo dovuto condensare molte storie ma tutti gli elementi fondamentali di Schindler's List sono autentici... Durante la scelta del cast abbiamo lavorato molto per cercare attori e comparse capaci di comunicare la consapevolezza che ogni giorno avrebbe potuto essere l'ultimo, l'incertezza di un'esistenza legata al mutevole umore altrui. Sul set si era formata la coscienza di quello che stavamo facendo... C'erano strane sensazioni, quasi una sofferenza. Certo, sembra ridicolo parlare di sofferenza quando il termine di paragone è lo sterminio nazista, e qualsiasi nostro dolore, rispetto a quello delle vittime di Hitler, è come una vacanza a Miami. Ma in alcuni momenti il solo ricordo dei fatti dell'Olocausto mi avviliva al punto che volevo smettere le riprese e mandare tutti a casa. In ogni posto dove abbiamo girato il film, tra i muri degli edifici risalenti a quell'epoca, dietro le mura del ghetto che ancora oggi resistono, la memoria delle vittime era viva. La macchina da presa, così, doveva essere una parte del racconto e non la protagonista: il film è in bianco e nero perché sono in bianco e nero i materiali, i filmati e i documentari che ho sempre visto sull'Olocausto... Sono state usate al 40% macchine da presa a spalla. per raccontare il più possibile gli eventi con un taglio documentaristico, da cinemaverità. Non credo, infatti, che ci sarà mai un libro o un film o qualsiasi altra forma di espressione in grado di rappresentare il vero orrore dello sterminio nazista. Nel mio film cerco di darne un'idea, voglio convincere la gente che non può voltare le spalle a quello che è accaduto e fingere che esista solo il domani... Ho una coscienza politica da quando sono diventato padre. Dieci anni fa, quando mi intervistavano per E.T. ero fiero di dichiarare che ero politicamente agnostico, che mi ero interessato ai Beatles sei anni dopo gli altri e che la guerra del Vietnam mi era passata sopra la testa. Schindler's List è diverso da tutto quello che ho fatto finora, forse perché ho buttato via una serie di attrezzi del mestiere. Uno è la gru, l'altro è il colore. Ho limitato i miei strumenti per far sì che la storia fosse l'unica forza del film, senza scene a effetto - sperando che questo non lo renda noioso ma girando rapidamente: da trentacinque a quaranta scene al giorno. Ho girato più scene in cinque settimane per SchindIer's List che negli ultimi cinque film messi in fila".

Sul viale dei Giusti di Gerusalemme che conduce allo Yad Yashem, la fondazione in memoria dei martiri e degli eroi, c'è un boschetto di carrubi. Ogni suo albero è stato piantato da un uomo insignito dell'onorificenza di Persona Retta. E fra gli altri, c'è l'albero piantato da Oskar Schindler, il tedesco dei Sudeti dal fascino alla Charles Boyen, gran donnaiolo, gran bevitore, grande bugiardo e salvatore di ebrei. L'aitante Liam Neeson, all'inizio del film, è ripreso volutamente dal basso: una figura "gigantesca", che sovrasta lo sporco grigiore dell'ambiente e non si lascia definire con precisione. L'industriale, arrivato a Cracovia per mettersi in affari, è un uomo tutt'altro che virtuoso, di principi morali ambigui, nient'affatto disposto ad inimicarsi un regime che pure deplora. Rilevando una smalteria confiscata ed usando come operai ed impiegati gli ebrei concentrati nel ghetto, l'imprenditore spregiudicato spera di ricavare interessanti profitti... Pur iscritto al partito ed amico personale dei capi delle SS, non partecipa al fanatismo dilagante e preferisce ingaggiare un duello d'astuzia con l'apparato militar-ideologico che ha blindato il paese. L'intelligenza del film sta tutta in questa prospettiva mobile, nell'occhio della cinepresa che prima dilata e scompone gesti e comportamenti, poi s'immerge nel sottofondo di malessere e nausea e solo più tardi emerge per inquadrare "a figura intera" il nuovo Schindler. Le tecniche di racconto, intanto, riproducono uno dei procedimenti infallibili del regista e cioè l'alternanza thrilling di buio/luce, dentro/fuori, vuoto/pieno. La fotografia, preziosamente contrastata, serve perché la paura, la fame, il freddo e l'odore di morte invadano platealmente quel comfort esistenziale che costituisce l'unica religione di Oskar. E il montaggio alternato raggiunge effetti di un'intensità degna dei classici del cinema muto: l'audacia visiva determina la forza emotiva più ancora del contenuto della narrazione. Mentre la colonna audio (grazie anche al nuovo sistema Dts) differenzia i suoni quotidiani e realistici della crudeltà e dell'orrore dalle "eccezionali" sottolineature dell'accompagnamento musicale di John Williams.

Notevole anche l'applicazione degli attori: Liam Neeson, fermo come una roccia eppure credibile nella difficile progressione verso la pietas; Ben Kingsley, straordinario nel conferire persino sfumature ironiche alla figura del ragioniere ebreo Stern, diventato braccio destro (e buona coscienza) di Schindler; Ralph
Fiennes, agghiacciante come e più del Marlon Brando de I giovani leoni, nel ruolo dell'aguzzino Amon Goeth. All'inizio, il frivolo Oskar così giustifica l'attaccamento a Stern (già impegnato a salvare i perseguitati, sia pure "nell'interesse dell'azienda"): "Nella vita, secondo mio padre, servono un buon dottore, un prete indulgente e un bravo contabile". Ma poi, quando il ghetto viene distrutto e gli ebrei trasferiti nel campo di concentramento, comprende la necessità di avvicinare Goeth, di convincerlo dell'indispensabilità della mano d'opera ebraica per la fabbrica e di ammorbidirlo con attenzioni e regali. Senza diventare un kamikaze filantropico ed intenzionato ad abbandonare Cracovia, stila, tuttavia, insieme al fedele Stern, una lista di nomi di operai con l'intento di salvarli da Auschwitz facendoli trasferire in una nuova fabbrica-paravento a Brunnlitz. Spielberg non è stato, certo, il primo regista ad aver messo in scena il macabro periodo ma nel suo film il pathos è davvero inaudito, eroico: quando la Gestapo rastrella donne e bambini, quando i corpi stramazzano al colpo della pistola a bruciapelo, quando Goeth si diletta a sparare dal balcone della sua villa sui suoi schiavi intenti al lavoro, quando si chiacchiera del più e del meno tra un'esecuzione e l'altra. Coraggiosamente inedito nel mettere in evidenza la corruttibilità degli "onnipotenti" e nell'accennare ad un argomento-tabù, il collaborazionismo dei prigionieri, è particolarmente efficace nel cogliere il formicolio di una folla indistinta, di una massa schiacciata e, nel contempo, nello scolpire volti, espressioni, caratteri che s'incidono nella memoria dello spettatore forse più a fondo di quanto non abbiano potuto le celebri e tristi immagini dei documentari: specialmente quando coinvolge i bambini con quella delicatezza di cui lui solo è capace. Bambini strappati alle madri ed ammassati in un camion (con l'immagine indimenticabile della piccina vestita di rosso che spicca nel bianco e nero come un simbolo di sopravvivenza), bambini nascosti nel liquame delle latrine per sfuggire al massacro, bambini che si adattano ad un orrore che non capiscono con uno spirito di sopravvivenza che ha del miracoloso (o del "magico", nel senso della fuga delle biciclette di E.T nell'azzurro del cielo).

La critica più sensibile valorizzò il film e non mancarono le analisi sofisticate e brillanti che costruivano una rete strettissima di somiglianze tra Jurassic Park e Schindler's List. L'intento, lodevole, era quello di smascherare l'ipocrisia di chi aveva criminalizzato il primo film per una supposta e distruttiva pericolosità culturale ed ora saltava, disinvoltamente, sul carro di un artista diventato di colpo ispirato, disinteressato e progressista. È verissimo, del resto, che non si può deplorare il mestierante miliardario quando fa braccare il povero E.T.
dai cani dello sceriffo ed esaltarlo quando staglia donne lacere e terrorizzate all'ombra delle ciminiere di Auschwitz: smascherarlo se fa ballare un vivo con un trapassato in Always e poi incoronarlo perché dal simbolo terribile della bambina uccisa e riversa sul carro e dai superstiti che s'incamminano nella pianura stacca sui veri "ebrei di Schindler" che sfilano davanti alla tomba del loro protettore, nei colori accesi dell'oggi, accompagnati o sorretti dai rispettivi interpreti: deriderlo quando aspirava all'Oscar sulle ali della felicità di immense platee popolari e laurearlo sull'onda di un paio di battute elettorali di Bill Clinton. Bisogna anche aggiungere, però, che il gergo dello specialismo non basta a spiegare la peculiarità di Schindler's List, film che pretende a buon diritto di entrare nel vivo del dibattito storico-politico. In realtà, il regista non ha fatto altro che esercitare la duttilità, l'adattabilità, l'eccletismo di quell"'arte industriale", preconizzata da Flaubert, di cui è diventato indiscusso maestro. Regista americano nel senso così bene circoscritto da Ernesto Galli Della Loggia (in un memorabile articolo sul "Corriere della Sera"), sa bene che nessun film può salvare il mondo ma può permettersi di esprimere, senza mistificazioni, una limpida fiducia nei valori del bene, della legalità, della libertà collettiva e dell'onestà individuale. Alla critica che lo ha sempre considerato una figura ingombrante e fuorviante, è riuscito a dimostrare di essere in grado di stravincere anche in un genere diverso, più o meno a ragione considerato nobile e consacrato. Viene persino voglia di chiedersi, pensando a tanti, presunti campioni della poesia ineffabile e del verismo pauperistico: riuscirebbero, a ruoli e budget invertiti, ad allestire in scioltezza un kolossal fantastico gradito alle folle intercontinentali? Comunque, nello sterminato archivio degli articoli, dei saggi, dei capitoli di libri dedicati al film prima e dopo il traguardo degli Oscar, spiccano due interventi un po' meno legati alle categorie della recensione.

Per Furio Colombo: "Steven Spielberg ha rivisitato la storia e ne è uscito senza ferite. È un fatto molto raro se si pensa al compito che si era imposto: narrare tutto l'Olocausto usando un solo episodio, la fabbrica di Schindler, e affidando la conduzione della vicenda a un eroe positivo che è tedesco e nazista... Molti "ebrei di Schindler", come essi stessi si definiscono, sono ancora vivi. Per quanto ne so nessuno di essi, in America o Israele, ha contestato la narrazione di Spielberg. Si sono fatti avanti indicando il loro nome cambiato, precisando questo o quel particolare. Ma tutti hanno mostrato di essere fedeli alla memoria di Schindler e affettuosamente grati della ricostruzione di Spielberg. Come è possibile, visto che Schindler's List ha decisamente una narrazione da grande fiaba? Una risposta la propone David Margolick, sul "New York Times": "Ci voleva l'uomo dei dinosauri per rendere credibile l'incredibile"... Con la storia di Schindler, non "buono", eppure unico salvatore di gente perduta da una condanna accettata da tutti entra in scena il regista delle storie impossibili, l'uomo del cinema che ti fa credere nei mondi impossibili, ti fa commuovere con E.T., ti fa toccare l'universo dello spazio e quello della preistoria. Ha ragione il critico del "New York Times". Ci voleva un uomo con queste doti per rendere credibile, epica, realistica, una storia che è allo stesso tempo assolutamente impossibile e assolutamente vera, che sembra lontana mille anni e invece appartiene alla nostra civiltà e al nostro tempo... È il primo film su quei tempi fatto da qualcuno che allora non c'era, che non ha visto mai la guerra se non al cinema, che conosce i soldati tedeschi dalle cineteche, che si è riempito gli occhi di sequenze viste in moviola ... Steven Spielberg, uomo giovane nato dopo la guerra, viene avanti e dice: datemi il pacco dei documenti, tocca a me portarlo un po' più avanti. Accusatelo di essere hollywoodiano, se volete, per il modo abile con cui muove le masse, per il passo epico delle sue inquadrature, per il montaggio incalzante, per il commento del violino di Itzak Perlman che è come una riflessione continua. L'operazione, come è sempre avvenuto nella storia della cultura è questa: io mi impossesso di tutto quello che sappiamo di questa storia, e la racconto come so raccontarla io, con l'impronta, lo stile, i modi del mio tempo. Infine c'è ancora una grande lezione... Il luogo è la Polonia. Il protagonista è tedesco, gli ebrei di Schindler, e tutti gli altri che si vedono morire sul fondo, vengono da tutte le nazioni invase... La mano di Spielberg, in questo film, come in E.T., come ne L'impero del sole, ha questo di bello: non ti consente mai di dire che sei al chiuso di una sola avventura accaduta in un solo luogo".

Nel più acuto commento pubblicato in Italia, Guido Fink inizia col rievocare il discusso passaggio finale, quando l'ufficiale russo "libera" quel migliaio di ebrei abbandonati e gli dice che, forse, c'è una città che possono raggiungere dietro l'orizzonte; prima che il film rifiorisca nel colore e si trasformi nella sfilata documentaristica dei personaggi ormai vecchi che depongono un sassolino sulla pietra tombale di Schindler: "Potrebbe sembrare una sorta di retorica passerella finale ed è invece un momento straordinario... È il momento in cui s'incontrano, e pur senza fondersi si rispecchiano l'una nell'altra, le due anime del film: quella che il regista, per la prima volta lontano dal gusto della tecnologia e del superspettacolo che gli ha dato il successo, vorrebbe documentaria (in realtà le sequenze nel lager, o la sanguinosa liquidazione del ghetto di Cracovia del marzo 1943, sono riprese e montate con uno stile tutt'altro che neutro, che ricorda caso mai le sequenze più forti e più riccamente orchestrate del cinema d'avventure fordiano), e quella francamente romanzesca e hollywoodiana, al servizio di una vicenda che per altro pare rigorosamente storica. Come a teatro, al momento della "decompressione" e dei saluti al pubblico, gli attori sono un poco rigidi, compunti: al confronto i vecchietti "veri" che danno loro il braccio sono molto più disinvolti... La stessa forza espressiva qui raggiunta da Spielberg, la perfetta, diabolica mescolanza di emozione e di suspense contenuta nella sceneggiatura, provocheranno prevedibili accuse: si parlerà di Indiana Jones contro l'Olocausto, qualcuno ricorderà il monito di Elie Wiesel secondo cui una letteratura ispirata al genocidio sarebbe una contraddizione in termini. Ma è anche vero che fino a oggi il cinema americano non aveva veramente affrontato l'argomento: prima e durante la guerra per prudenza e autocensura, poi, almeno in parte per lo stesso ritegno e imbarazzo per cui scrittori come Malamud, Bellow o Roth esitavano a parlare di qualcosa che gli ebrei americani non avevano direttamente sperimentato. Schindler's List, film con cui Spielberg cerca di guarire dalla sindrome adolescenziale di Peter Pan e di interrogarsi sul senso delle proprie radici, non ha nulla a che vedere con le meditazioni a carattere lirico o documentario del cinema europeo, Notte e nebbia, Shoah o Il dolore e la pietà, proprio come certe ricostruzioni surreali e sulfuree dell'universo concentrazionario tentate di recente dalla narrativa ebraico-americana, ad esempio quella di Cynthia Ozick, non somigliano alle testimonianze dirette e ai ricordi di un Primo Levi o di un Jona Obierski. Ma è innegabile che l'operazione di Spielberg abbia una sua coerenza, e che la sua veste formale, i suoi stessi legami con la più scaltrita tradizione spettacolare del cinema americano ne costituiscano, per così dire, un correlativo necessario e perfetto... Quel che assolutamente non piacerà a chi conservi qualche illusione sulla Storia come espressione di moralità trascendenti, è il fatto che l'unica speranza di sopravvivenza si identifichi, sia pure inizialmente, con la logica del capitale, per cui appare controproducente affamare gli operai o mandarli nelle camere a gas; il business, come dice Schindler a Goeth, non si fa così. In questo senso, Spielberg non solo non rinnega i suoi film più spettacolari (né si vede perché dovrebbe farlo), ma non rinnega nemmeno Hollywood, anzi ne ribadisce l'insostituibile funzione come ultima frontiera e metaforica conservazione a futura memoria, di tutte le narrazioni possibili: anche le più dolorose e remote, anche quelle più apparentemente antitetiche alla natura dell'entertainment. E al termine di questo film - comunque bellissimo - è forse proprio a Hollywood che gli ebrei di Schindler si dirigono, quando si incamminano in quella pianura deserta, alla ricerca di una città".

In effetti, la forza del film sta nella sua epigrafe ideale: non è necessario essere santi per fare del bene. A conferma implicita di ciò che rende omogeneo e vincente il rapporto del cinema Usa con la cultura patria. In Schindler's List la sinergia di ambientazione europea, soggetto europeo e "democrazia dell'eroismo" peculiarmente americana (con tanto di sottolineatura del valore dell'intraprendenza, della genialità e del sacrificio individuali, contrapposto all'imbelle inefficacia dei progetti salvifici universali) ha saputo raccontare l'irraccontabile e fatto pulsare il senso ultimo della Shoah. L'erede delle novecentesche utopie assassine, l'odierno integralista - sembra suggerirci Spielberg - è chi vuol creare comunità ideali, buone e pure, al di fuori delle quali tutto è malvagio. Così nascono i miti del proletariato, della razza o della nazione di cui la "purificazione etnica" serba è l'esempio più vistoso. La sera di lunedì 21 marzo 1994 la leggenda del piccolo Steven, il ragazzino che tentò d'ingoiare un minuscolo microprocessore - il rivoluzionario dispositivo dei computer odierni - col quale il padre, ingegnere elettronico, aveva voluto sorprendere la famiglia, si è perfettamente, circolarmente conclusa in storia. Annunciati da Whoopi Goldberg, proprio la brillante attrice lanciata da Il colore viola, ben dieci Oscar furono assegnati a Spielberg: sette per Schindler's List e tre per Jurassic Park. Al primo film, in particolare, andarono le statuette di miglior film, migliore regia, miglior fotografia, miglior soggetto non originale, migliore colonna sonora, miglior montaggio, migliore scenografia: un trionfo. Sul palcoscenico del Chandler Pavillon di Los Angeles, Harrison Ford consegnò la più prestigiosa al regista che lo aveva lanciato e Steven, con un sincero groppo alla gola, dedicò il trofeo così a lungo e strenuamente sognato ai sei milioni di ebrei morti nei campi di concentramento, implorando gli insegnanti del suo paese "affinché non riducano l'Olocausto a una semplice nota a pié di pagina della Storia".

Il perbenistico zio Oscar, comunque, non aveva proprio potuto fare a meno di sfiorare lo Spielberg n° 2, il prestidigitatore dell'immaginario ritenuto un criminale, o quasi, dal khomeinismo euro-corporativo, assegnando le tre medaglie tecniche a Jurassic Park. Ma anche nella furbesca e diplomatica sproporzione s'intravede un assioma vincente: il linguaggio cinematografico è uno solo e può
mettere lo spettatore in crisi con se stesso ovvero fornirgli magnifiche consolazioni; può stabilire un "patto" col fruitore ingenuo o soltanto col fruitore critico: il meglio è quando ci riesce con entrambi. Non c'è nulla di sconveniente nell'aggiungere un corollario alla sfida vinta dall'ex Golden Boy: adattare il talento all'argomento è stato il viatico per meritarsi il titolo ufficiale di "autore". Come non sottintende alcuna malignità ricordare la forte spinta impressa al film dalle lobbies ebraiche, tra le più autorevoli ed influenti degli Usa. Si sa, del resto, che con le sue diecimila pellicole e cinquemila videocassette, l'archivio filmico "Steven Spielberg" è oggi la più completa testimonianza della storia degli ebrei nel mondo: creato a Gerusalemme nel '69, per opera di uno storico dell'Hebrew University, l'archivio ricevette una ingente donazione da Spielberg e prese il nome del regista americano. Tra le varie collezioni è di grande importanza quella chiamata "Holocaust", per la quale fu siglato un accordo tra il Ghetto Fighters' Museum, maggiore centro di ricerca israeliano sull'Olocausto e l'Archivio Spielberg affinché tutto il materiale appartenente a questa istituzione fosse trasferito nella cineteca. Negli anni, poi, le organizzazioni ebraiche di tutto il mondo hanno procurato all'archivio copia dei loro film e tutte quelle istituzioni israeliane che non hanno la possibilità di conservare le proprie pellicole lo hanno eletto a deposito ufficiale e centro di consultazione (i suoi terminali sono collegati al sistema informatico del Centro Computer dell'Hebrew University e a quello bibliografico dell'Institute of Contemporary Jewry).

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"SCHINDLER'S LIST"

di Massimo Cavallini

"La guerra è finita e la Germania l'ha perduta. lo sono un tedesco, un profittatore di guerra ed un membro dei partito nazista. Mi scuserete dunque se, a questo punto, vado a preparare i miei bagagli". Con queste parole, ormai sul finire dell'ultimo acclamatissimo film di Steven Spielberg, Oskar Schindler ufficialmente si congeda dai prigionieri ebrei del campo di lavoro da lui diretto. Appena il tempo, ancora, per vedere la sua auto sovraccarica allontanarsi nella notte. E per assistere, cambiato completamente scenario, alla sequenza finale della pellicola. Non più in bianco e nero, questa volta, ma negli "splendori del Technicolor". Non più nella perenne penombra della Polonia dei campi di sterminio, ma sotto il sole mediterraneo della Gerusalemme di oggi. Dove quegli stessi prigionieri - o, più spesso, i loro figli - rendono compunto omaggio alla tomba di quel tedesco nazista e profittatore di guerra. All'uomo che li aveva salvati.

"Schindler's list, la lista di Schindler, è in fondo soprattutto questo: la storia di una strana conversione. Ed il tratto più originale ed interessante dei film sta, probabilmente, proprio nel fatto che una tale metamorfosi - da villano a salvatore - sembra attraversare il protagonista senza trasfigurarlo né modificarlo. Poiché tra l'Oskar Schindler che s'arricchisce alle spalle degli ebrei perseguitati e quello che, alla fine, si rovina per salvarli dalla prigionia e dalla morte, non corrono, almeno in superficie, molte differenze. Schindler era - e resta lungo tutto l'arco della pellicola - uno spregiudicato bon vivant, un "antieroe" che dalla propria relazione col mondo pretende soprattutto soldi, belle donne e champagne. E che proprio per questo suo edonistico amore alla vita sembra essere - nella visione di Spielberg - il più perfetto antidoto della follia nazista.

La storia di SchindIer e della sua lista - già raccontata dodici anni fa in un libro dello scrittore australiano Thomas Kenneally - comincia il giorno in cui, subito dopo l'invasione nazista della Polonia, il protagonista giunge a Cracovia deciso come lui stesso dice - "a cavalcare la bella donna che più può cambiare, in meglio o in peggio, la vita d'ogni uomo: la guerra". L'immensa tragedia che sta per sconvolgere il mondo non è, per lui, che un'occasione per tradurre in prassi la filosofia cui più ispira la propria esistenza: guadagnare molti soldi, guadagnarli possibilmente alle spalle dell'altrui lavoro e spenderli per il proprio piacere. Non è, Oskar Schindler, né un nazista né un antisemita. E' soltanto un opportunista, uno speculatore deciso a collocarsi saldamente sulla sella del "cavallo vincente" ed a costruire le proprie fortune sulle disgrazie degli ebrei polacchi. Forte della propria contiguità con le autorità naziste - e sfruttando capitale e lavoro delle vecchie élites giudaiche ora perseguitate e rinserrate nel ghetto - avvia una fabbrica metallurgica. "Noi ci mettiamo i soldi e la manodopera - gli chiede un giorno irritato il suo capocontabile ebreo -. E lei che cosa ci mette?'. "L'immagine", gli risponde Schindler ammiccante e sfacciato.

La "svolta" - una svolta graduale e quasi impercettibile - avviene allorché, attorno all'avviato e proficuo tran-tran degli "affari di guerra" di Herr Schindier, gli eventi cominciano a precipitare. Dall'alto delle colline che circondano Cracovia, durante una gita a cavallo, Oskar assiste all'evacuazione del ghetto ed all'inizio della deportazione verso i campi di sterminio. E nella sorte d'una bambina dall'abito rosa - unica poetica e tragica macchia dì colore nel bianco e nero del film - vede finalmente riflessa la logica di morte del nazismo, la crudeltà insensata di quella persecuzione contro un popolo. Poco più tardi lui stesso viene brevemente arrestato, per quello che considerava il più benefico e naturale dei gesti: baciare in pubblico una donna ebrea. E da speculatore diviene salvatore. Nella sua vita cambia tutto e, al tempo stesso, non cambia nulla. Non cambia nulla perché, imperterrito e gioviale, Oskar continua a frequentare ed a corrompere, con donne e danaro, i gerarchi nazisti (primo fra tutti il sinistro Amori Goeth, sanguinario capo del campo di lavoro di F'Iaszow). E cambia tutto perché il suo unico e sempre più ossessivo scopo è, ora, quello di sottrarre vite umane all'immensa macchina di sterminio messa in moto dal regime che ha fin qui servito, dalla "bella donna" che, un tempo, aveva cinicamente sperato di sedurre. Alla fine la lista di Schindler" arriverà ad includere 1200 nomi, il più alto numero di ebrei mai salvati, durante l'ultima guerra, da un solo individuo. E grande resterà, per sempre, la gratitudine degli Schindlerjude. "Noi - scriveranno nel '61, durante il processo ad Eichmati - non dimentichiamo le pene d'Egitto, non dimentichiamo Haman e non dimentichiamo Hitler. Per questo, tra gli ingiusti non dimentichiamo il giusto. Non dimentichiamo Oskar Schindier".

Resta ovviamente, alla fine di questa vicenda insieme nobile ed ambigua, una domanda senza risposta. La stessa che - come riferisce nel suo libro Thomas Kenneally - un giornalista rivolse a suo tempo al medesimo Oskar Schindler. "Come spiega il fatto - gli chiese - che durante il massacro degli ebrei lei continuasse ad intrattenere intimi rapporti con tutti i capi delle SS tedesche in Polonia?". SchindIer se la cavò, in quell'occasione, con una battuta brillante e spiritosa. In quegli anni - replicò da par suo - sarebbe stato difficile discutere il destino degli ebrei con il rabbino capo di Gerusalemme".

Sagge parole. Sagge e tuttavia, ancora una volta, prive d'un vero alito di ribellione. Schindler ha salvato vite umane. Ne ha salvate molte con la pragmatica furbizia del giunco capace di piegarsi sotto la corrente impetuosa della morte. Ma mai si è davvero posto il problema di fermare la corrente, di spezzare la macchina sanguinaria del nazismo.

E certo è che, per quanto lunga fosse diventata la sua "lista", ben poco essa avrebbe cambiato della realtà del genocidio in corso. Quella della "Schindler's list rimane - nella vita reale e nel film di Spielberg - una bella storia. Ma non tutta la storia. E non quella, forse, che più aiuta a capire.

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SCHINDLER'S LIST, TRA FICTION E STORIA
di Maria Pelizzatti


Nel giorno in cui Gerusalemme ha celebrato la Giornata della Memoria, anche la Rai ha reso omaggio alla ricorrenza creando un evento mediatico straordinario. La programmazione della Prima Rete di lunedì 5 maggio è stata infatti quasi interamente dedicata alla commemorazione della Shoah, lo sterminio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. In una sorta di intensa ed emozionante staffetta-cavalcata, fin dalla mattinata sullo schermo sono passate immagini delle camere a gas, dei genocidi, storie di bambini ebrei che vissero la tragedia della discriminazione razziale, interviste ai sopravvissuti ai campi. Quindi alle 21, preceduta da uno special di Gad Lerner, è stata proiettata, in prima visione, la pellicola di Steven Spielberg "Schindler’s List", che nel ’94 alla cerimonia degli Oscar si aggiudicò sette statuette. Il film, stando alle rilevazioni Auditel, ha ottenuto un clamoroso ascolto di oltre 12 milioni di telespettatori (dato che lo colloca tra le prime venti posizioni delle pellicole più viste). L’iniziativa della Rai non solo ha incontrato il consenso del pubblico, ma ha anche ottenuto l’apprezzamento e il plauso da parte di Tullia Zevi, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche, di Elio Toaff rabbino capo di Roma, e di esponenti del mondo politico, primo fra tutti Walter Veltroni. Tutti concordi nel sostenere l’importanza della commemorazione, in un momento di pericoloso revisionismo (vedi le dichiarazioni di Vittorio Emanuele sulle leggi razziali, i cori di Padova contro i due calciatori nigeriani e altri tristi episodi), e soprattutto la necessità che anche i più giovani conoscano una delle pagine più drammatiche e vergognose della storia del nostro secolo. Vi è stato però anche chi, pur apprezzando l’ampio spazio dedicato alla commemorazione dello Shoah, ha espresso dei dubbi riguardo alla scelta della pellicola di Spielberg. Lo storico Raul Hilberg, in un' intervista rilasciata al Corriere della Sera, sostiene che Schindler’s List "non è un film sullo sterminio degli ebrei. E’ soltanto la storia di una persona, per di più scandita da alcune inesattezze. Ci vuole ben altro per raccontare l’annientamento di un popolo". Lo studioso è convinto che "la Storia, quella con la "S" maiuscola, non va confusa con la cronaca romanzata di una vita". In effetti la pellicola di Spielberg può essere considerata la cronaca romanzata di una vita, dal momento che è tutta incentrata sulla storia di Oskar Schindler, piccolo industriale tedesco, che nel 1939, all’indomani dell’invasione della Polonia da parte dei nazisti, giunge a Cracovia con l’intenzione di arricchirsi sfruttando la manodopera a basso costo degli ebrei in una fabbrica di vasellame. Pian piano, colpito dalla ferocia dei persecutori, scopre quasi inavvertitamente un senso di solidarietà, la spinta, quasi una esigenza interiore, a far qualcosa per un altro. La sua "missione" diventa dunque quella di salvare i suoi operai dallo sterminio. Si ridurrà in povertà, ma per merito suo, 1100 ebrei (quelli della lista) destinati ai campi di sterminio, sopravviveranno alla guerra. Il film si apre e si chiude con l’omaggio dei veri superstiti alla tomba del vero Schindler a Gerusalemme. Spielberg si sottrae al rischio di offrirci una descrizione agiografica del protagonista, rappresentandolo anzi come un donnaiolo, filonazista, senza scrupoli. Non un santo, non un eroe, ma un uomo comune, un Giusto. Il film può essere letto, o meglio visto, semplicemente come la "cronaca romanzata di una vita", secondo il suggerimento di Hilberg. Ma sono del parere che ci sia di più. Il regista costruisce, intorno alla storia di Schindler, un affresco straordinario, di larghissimo respiro, di grande forza. Contribuisce senza dubbio a questo, l’utilizzo del bianco e nero (un tentativo di assimilarlo ai documenti dell’epoca), tecnica che si rivela di singolare potenza e intensità. Unica indimenticabile macchia di colore e il cappottino rosso della bambina, che attira l’attenzione del protagonista mentre cerca di sfuggire, nascondendosi, ai tedeschi. E la macchina da presa la segue su per le scale di un edificio (non è più Schindler a vederla, siamo noi). Una specie di segno distintivo che attira l’attenzione del protagonista, che guarda da lontano la scena. Rivedrà, nel campo di concentramento, quello stesso cappotto, sul corpicino morto. Questa macchia di colore sintetizzando il significato del film, ne costituisce la molla drammaturgica, e spiega la ragione della svolta nella vita di Schindler. Di notevole impatto emotivo anche le scene relative alla liquidazione del ghetto il 13 marzo 1943 (a mio avviso le più belle e riuscite). "Schindler’s List" è senza dubbio un gran film romanzesco, un grande melodramma. Chi gli contrappone le austere immagini girate dall’inglese Sydney Bernstein nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, all’indomani dell’arrivo degli alleati, dimentica che qui siamo in piena fiction, che, in quanto tale, non può essere paragonata al documento. Ha sicuramente ragione Hilberg quando suggerisce di non confondere quanto si vede nella pellicola con la Storia. Tuttavia se il film, con la sua ricostruzione storica romanzata che riesce a dosare opportunamente memoria, dolore ed emozione, ha il merito di toccare il cuore e la coscienza dello spettatore, di ricordargli le peggiori atrocità del ventesimo secolo, ha ottenuto un buon risultato. Questo è quanto si proponeva Steven Spielberg accingendosi ad un’opera di tale portata. Commentando i sette Oscar vinti, il regista non ha perso l’occasione per lanciare un monito: "Non lasciate che l’Olocausto sia una semplice nota a pie’ di pagina della storia. Siate attenti agli echi dei fantasmi, insegnatelo nelle vostre scuole".

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Molto umano

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Roberto, 20 anni, Maglie (LE).

(10 Settembre 2002)

 

Sinceramente ero un po' indeciso se vedere o no questo film dal momento che lo sterminio degli ebrei è un argomento che mi fa accapponare la pelle; poi però ho deciso di vederlo e devo dire che ne è valsa veramente la pena; steven spielberg è e rimarrà il mio regista preferito dato che i suoi film riesce a farteli vivere, a farti sentire il protagonista del film; in questo poi ha saputo trattare il tema purtroppo molto triste dell'olocausto dei sei milioni di ebrei in un modo impareggiabile; inoltre c'è davvero da elogiare liam neeson per la sua favolosa interpretazione del personaggio di oscar schindler: un'uomo ricco sfondato, appassionato del buon cibo, delle belle donne, egocentrico, e inoltre iscritto al partito nazista; naturalmente non ci si aspetta certo da un uomo con questo profilo il gesto di profonda umanità che poi compierà nel corso del film e cioè salvare 1000 ebrei da una morte sicura e atroce nei campi di sterminio; per farla breve questo film è qualcosa di indescrivibile poichè riesce a trasmetterti gli orrori del nazismo in maniera abbastanza realistica (basti pensare ad amon goeth, il generale nazista, che non ha un briciolo di rispetto per la vita umana poichè si alza la mattina e prima di prendersi il caffè uccide due persone con un fucile dal balconcino della sua villa); su questo film ci sarebbe da parlare per un giorno intero ma purtroppo i caratteri disponibili non sono molti e quindi devo stringere un po'; voglio solo fare una piccola precisazione sulla conclusione; la scena di schindler che scoppia a piangere davanti a tutti gli operai che ha salvato dicendo che ne avrebbe potuto salvare almeno uno vendendo anche la spilla d'argento con la svastica è molto bella e a dir poco commovente; solo che se da un punto di vista cinematografico questa scena è davvero molto bella, non si può dire lo stesso da un punto di vista umano; infatti da oscar,un uomo molto forte caratterialmente non credo che ci si sarebbe aspettata una reazione di quel tipo; ma d'altra parte è un essere umano anche lui; concludo rivolgendo una frase a tutti coloro che hanno visto questo film e che di conseguenza considerano i nazisti delle bestie e non degli esseri umani: non dimenticate!!!!!!!!


se questo non e' un capolavoro.....

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Dea, 15 anni, prov.roma.

(9 Settembre 2002)

 

Non ho mai pianto tanto per un film quanto per questo e x "la vita e' bella" di Benigni.... Questo film tocca nel profondo, magari alcuni lo troveranno crudo ma mai quanto possa esserla stata la realta'.Il finale e' superbo e le lacrime ti sgorgano da sole...e quella bambina dal cappottino rosso... Se reggete vedetelo!! Altrimenti consiglio a tutti gli altri di continuare a guardare "Superquark" o "Indiana Jones"...


Vandalismo in un cimitero

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Fabio, 14 anni, Bari

(24 Agosto 2002)

 

Mediocre, mediocre, mediocre. Vorrebbe far riflettere, ma fallisce. Vorrebbe far commuovere, ma fallisce. A tratti vorrebbe far sorridere, ma fallisce. Il bianco e nero vorrebbe essere un'idea originale, ma fallisce. Liam Neeson è poco espressivo, idem gli altri attori. Le musiche sono degne della peggior Marlene Dietrich feat. Leone Di Lernia. Spielberg sembra proprio esersi montato la testa, ora che è ricco, e i capolavori come "Lo squalo", "Duel", e alla serie "Indiana Jones" sembrano lontani anni luce. E alla fine cosa resta? un gruppo di arteriosclerotici che scrivono i propri nomi sulla tomba di Schindler (Ma questo è vandalismo!!!!! Al confronto, "Dobermann" è più educativo di Superquark!!!!!). I conclusione, fiasco su tutti i fronti (visto che parliamo di guerre...), e tre ore che potevano essere spese (insieme ai soldi della cassetta), per altro di più interessante. Personalmente, mi ha lasciato indifferente.


Incredibile !!!!

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Saccowar, 16 anni, Torino.

(18 Agosto 2002)

 

Davvero splendido, curato in tutti i dettagli! ottimo è dire poco.