Il grande regista di "Schindler's list" interviene
sul dibattito a proposito dei temi della maturità
LA LEZIONE SULL'OLOCAUSTO
di Steven Spielberg
La notizia che gli studenti liceali in Italia hanno avuto l'Olocausto
come tema ufficiale per la maturità è significativa. Vuol
dire che la storia dell'Olocausto e la sua importanza per l'educazione
e la tolleranza è evidentemente un'alta priorità per questa
e per le future generazioni di italiani.
Quando ho girato "Schindler's List" e ho fondato la Shoah Foundation,
il mio obiettivo, prima di qualunque altro, era proprio l'educazione:
fare in modo che il passato non fosse mai dimenticato.
Per la prima volta nella mia vita ho fatto un film senza preoccuparmi
se avrebbe incassato al botteghino, se sarebbe piaciuto alla gente: le
solite cose, insomma, quelle di cui m'importava negli anni 80.
Ho prima dovuto diventare padre per poter fare quel film, perché
un giorno i miei figli mi avrebbero fatto domande sull' Olocausto. Sapevo
che avrei dovuto rispondere a quelle domande, e io, in verità,
sono più bravo a comunicare attraverso un film che a parole.
Quando ero piccolo i miei genitori mi hanno raccontato tutto dell'Olocausto.
Abbiamo perso otto parenti nell'Europa dell'est, ma non abbiamo mai saputo
quando perché sono morti nei paesi in cui i tedeschi non tenevano
conti accurati. Papà, mamma, i nonni non facevano altro che parlarne.
Sono stato allevato nell'odio per Hitler e i nazisti, e quando è
cominciata la produzione di "Schindler's List" ero ancora pieno di rabbia.
Ho fatto quel film per la gente che non sapeva nulla della Shoah, soprattutto
per i giovani. Nei licei americani solo il 23 % degli studenti ha sentito
parlare dell'Olocausto; e un altro 23 % crede che sia impossibile, che
non sia mai successo; il 60 %non conosce nemmeno il significato del termine
Olocausto. È incredibile quanta ignoranza ci sia nel mondo su un
fatto tanto orribile. Con iniziative come questo tema, i politici italiani
che si occupano di educazione hanno fatto un balzo in avanti verso il
raggiungimento dell' obiettivo della conoscenza. Io li ringrazio a nome
mio, dei sopravvissuti, e dei milioni che non sono sopravvissuti. Vi siamo
debitori.
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"VOI CHE VIVETE SICURI..."
di Michele Morrocchi
"Chi salva una vita, salva il mondo intero", con queste parole si chiude
Schindler's list (la lista di Schindler) il film che Steven Spielberg,
ha dedicato alla storia di Oscar Schindler, un "giusto" che salvò
dalla morte centinaia di ebrei. Steven Spielberg, autore di film conosciutissimi
e di "cassetta" ci offre in più di tre ore di buon cinema una testimonianza
toccante che ha quasi il valore di un documento storico. Non è
un caso che Schindler's list sia stato il primo, e sino ad ora l'unico,
film trasmesso senza alcuna interruzione da una televisione statunitense,
condizione esclusiva che Spielberg ha imposto per la vendita dei diritti
televisivi in tutto il mondo. Il film assume una valenza importante anche
rispetto al numero di persone che lo hanno visto, soltanto in Italia la
trasmissione televisiva del 5 maggio si candida ad essere il programma
televisivo, dati auditel, più seguito dell'intera stagione, riuscendo
per la prima volta a sconfiggere persino la nazionale di calcio. E' indubbio
che un film che in tutto il mondo è stato visto da milioni di persone
che ha per tema quello importante della "shoah" è un documento,
quasi un humus collettivo, formativo delle coscienze riguardo a questo
argomento. Da un punto di vista cinematografico è da rilevare oltre
alle splendide interpretazioni di Ralph Fiennes, nel ruolo del comandante
nazista, di Liam Neeson, Oskar Schindler, e Ben Kingsley, l'uso magistrale
del bianco e nero che riesce, non distraendo lo spettatore in alcun gioco
cromatico, a mantenere altissimo l'interesse per più di tre ore.
Unica eccezione di colore un cappotto rosso, che come il sangue versato,
scorre attraverso la corsa di una bimba sino alla pozza di una fossa comune.
Non va però dimenticato che il film non presenta, cinematograficamente
parlando, alcun guizzo di novità: è un'opera degnissima,
con un altissimo contenuto morale, che ha l'intento di essere un manuale
emotivo di storia della "shoah".
Tentativo di essere un documento storico aveva tutta l'intenzione di esserlo
anche la Tregua di Francesco Rosi, tratto dall'omonimo libro di Primo
Levi, che racconta il ritorno a casa dopo la prigionia, attraverso un
viaggio che ha il valore iniziatico di un ritorno alla vita, con tutte
le angosce e le paure della vita normale dopo la morte del campo di concentramento.
"E' un racconto straordinario (..) come percorso da una ventata di libertà.
Ma quando finalmente arriva in Italia, Levi capisce che tutti gli ultimi
suoi (..) vagabondaggi ai margini della civiltà sono stati una
tregua affettuosamente e capricciosamente concessagli dal destino." (dalla
nota d'apertura dell'edizione dei tascabili Ei-naudi del libro). Il film,
in concorso in questa edizione di Cannes quasi esclusivamente per permettere
a John Turturro di competere alla palma d'oro come migliore attore, ha
però il limite di essere più una descrizione di ciò
che accade, senza scavare a fondo nel ritorno alla vita e nelle sofferenze
di un uomo che rinasce con alle spalle la distruzione e la morte dello
sterminio nazista. Una serie di ricordi inalienabili, come dimostrerà
la stessa vicenda personale di Primo Levi.
Altri cineasti italiani si sono cimentati col tema della prigionia e dello
sterminio sistematico, non solo degli ebrei, messo in atto dal regime
nazista: due di questi, Gillo Pontecorvo e Carlo Lizzani, hanno prodotto
rispettivamente, Kapò e L'oro di Roma. Kapò si inserisce
nel filone dei film sui campi di sterminio, e mostra il riscatto morale
di un'adolescente ebrea che dopo essere venuta a compromessi coi suoi
stessi aguzzini, aiuta i suoi compagni di sventura fino all'olocausto
finale. L'oro di Roma è invece ambientato nella capitale prima
della deportazione degli ebrei del ghetto, e mostra le vessazioni che
gli occupanti fascisti e nazisti impongono alla comunità ebraica.
Un film meno crudo e direttamente violento, ma che può servire
a ricordare di come italiani si siano macchiati dei peggiori crimini e
che lo sterminio e le leggi razziali non furono soltanto una questione
tedesca.
La finzione scenica, come quella letteraria non è l'oggetto della
storia, ma il suo valore di testimonianza, di valore esemplare, proprio
perché finzione sono indiscutibili ecco perché i film che
fin qui ho presentato, hanno il merito di essere esempi perché
nessuno dimentichi.
"Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943. Avevo
ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza e una decisa propensione,
favorita dal regime di segregazione a cui da quattro anni le leggi razziali
mi avevano ridotto, a vivere in un mondo scarsamente reale……"
Primo Levi, incipit di "Se questo è un uomo"
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SCHINDLER'S LIST
Di Valerio Caprara
Dal primo marzo '93, e per dodici memorabili settimane, girò la
trasposizione di un romanzo-verità dell'australiano Thomas Keneally,
"La lista", che ricostruiva in forma narrativa cinquanta testimonianze
di prima mano sulla tragedia dell'Olocausto. A proposito del quale lo
scrittore di Sidney ha dichiarato: "II mio libro e il film di Spielberg
cercano un punto focale per raccontare l'indicibile. Io l'avevo trovato
nell'aspetto industriale della Shoah: le opportunità che Schindler
rivolge a fin di bene, della manodopera industriale gratuita che l'imprigionamento
degli ebrei offriva... Sono un australiano cattolico di discendenza irlandese
e quindi trovo difficile capire l'antisemitismo... Ero inorridito da un
problema così alieno come la Shoah. Come gli scienziati di Jurassic
Park, ho cercato di ricostruire l'intero dinosauro attraverso una cellula,
e per me la cellula è stato il problema industriale". A Cracovia
fu costruito un enorme set, ma la Universal consentì alla troupe
di lavorare spesso in esterni, gli stessi del racconto. Inoltre lo scenografo
Allan Starski riprodusse, a partire dalla pianta originale, l'intero,
sinistro campo di concentramento di Plaszow, con le sue 34 baracche, 7
torrette di controllo e la strada centrale lastricata con tombe di ebrei.
La scena in cui i prigionieri scendono dal treno ed entrano nel lager
di Auschwitz fu girata all'esterno dello stesso campo, il cui perimetro
interno funge da monumento alla memoria dell'Olocausto (il Congresso mondiale
ebraico aveva proibito l'ingresso delle cineprese negli ambienti delle
camere a gas).
II film fu girato in bianco e nero, secondo la prima, irrinunciabile
condizione del regista, richiedendo un vero exploit al direttore della
fotografia Janusz Kaminski: "A causa dell'assenza di colore, mentre giravamo,
dovevo puntare la luce sui volti in modo da trasformarli negli elementi
più luminosi della scena; ho chiesto ad Allan Starski di assicurarsi
che le pareti fossero dipinte di una tonalità più chiara
o più scura rispetto ai volti presenti in scena, in modo da non
far confondere i volti con lo sfondo". Il budget di 23 millioni di dollari
era considerato a rischio dall'Universal, anche perché il bianco
e nero non garantiva lo sbocco in televisione e videocassetta; ma la ricerca
di autenticità voluta da Spielberg favorì disinteressate
e commoventi collaborazioni. Per esempio, dopo aver pubblicato un annuncio
in cui si ricercavano oggetti dell'epoca da utilizzare per ricreare la
scena, la troupe si ritrovò letteralmente sommersa da una marea
di occhiali, ombrelli, macchine per cucire, carte d'identità, valuta,
scarpe e vestiti e la costumista scoppiò in lacrime quando le si
presentò un'anziana vedova che veniva da un ospizio vicino a portare
i guanti che lei e suo marito avevano indossato il giorno del matrimonio.
Ancora la Sheppard prese a nolo mille divise a strisce da detenuto -
in Polonia i film sull'Olocausto sono all'ordine del giorno - ma poi le
dovette rovinare, tingendole di grigio perché sembrassero lise
e sporche. Una scena particolarmente raccapricciante era ambientata ad
Appelplatz, una piazza dove i prigionieri del campo di lavoro venivano
denudati e obbligati a correre su e giù davanti a dei dottori nazisti.
Ai "sani" era permesso rimanere nel campo di lavoro, mentre ali altri
venivano inviati ad Auschwitz. Sul set, un sopravvissuto raccontò
al regista che alcuni dei prigionieri, per cercare di sembrare sani, si
erano colorati le guance con il sangue ed allora, nel corso delle riprese,
Spielberg chiese a quattro attrici di pungersi le dita con un ago e di
usare il loro sangue. Quando vide la scena, il coproduttore Branko Lustig,
sopravvissuto a quattro campi di concentramento, si mise a piangere come
un bambino. Del resto, il regista ha raccontato di aver imparato a riconoscere
i numeri a tre anni: glieli insegnò uno studente di sua nonna che
era sopravvissuto ad Auschwitz, mostrando i numeri che i nazisti gli avevano
impresso a fuoco sul braccio: "Mi insegnò com'erano il due, il
quattro e il sette e poi faceva un trucchetto quando mi mostrava il nove:
rovesciava il braccio e mi diceva che era un sei". Passarono molti anni
prima che Steven capisse realmente quello che aveva visto: il simbolo
indelebile e atroce della carneficina ed il fatto che, per molti di quanti
erano sopravvissuti, quel simbolo era diventato una cosa prosaica. Quest'incredibile
duplicità, che rispecchia il contraddittorio bisogno di ricordare
e dimenticare, era esattamente quello che aveva in mente quando incominciò
a lavorare su Schindler's List, la storia angosciante ed avvincente di
un industriale tedesco che arrivò, in circostanze irripetibili,
a mettere in salvo circa mille ebrei nel periodo più atroce dell'Olocausto:
"Quando giravo il film in Polonia, non riuscivo a dimenticare nemmeno
per un attimo di trovarmi sul più grande teatro di morte della
storia moderna... Dopo un'infanzia vissuta nell'insicurezza, raccontare
l'Olocausto a un certo punto è diventata una necessità.
Anche se sono troppo giovane per averli vissuti direttamente, ho conosciuto
e patito quei fatti indirettamente, attraverso il racconto di parenti
ed amici. Naturalmente, rispetto al libro, abbiamo dovuto condensare molte
storie ma tutti gli elementi fondamentali di Schindler's List sono autentici...
Durante la scelta del cast abbiamo lavorato molto per cercare attori e
comparse capaci di comunicare la consapevolezza che ogni giorno avrebbe
potuto essere l'ultimo, l'incertezza di un'esistenza legata al mutevole
umore altrui. Sul set si era formata la coscienza di quello che stavamo
facendo... C'erano strane sensazioni, quasi una sofferenza. Certo, sembra
ridicolo parlare di sofferenza quando il termine di paragone è
lo sterminio nazista, e qualsiasi nostro dolore, rispetto a quello delle
vittime di Hitler, è come una vacanza a Miami. Ma in alcuni momenti
il solo ricordo dei fatti dell'Olocausto mi avviliva al punto che volevo
smettere le riprese e mandare tutti a casa. In ogni posto dove abbiamo
girato il film, tra i muri degli edifici risalenti a quell'epoca, dietro
le mura del ghetto che ancora oggi resistono, la memoria delle vittime
era viva. La macchina da presa, così, doveva essere una parte del
racconto e non la protagonista: il film è in bianco e nero perché
sono in bianco e nero i materiali, i filmati e i documentari che ho sempre
visto sull'Olocausto... Sono state usate al 40% macchine da presa a spalla.
per raccontare il più possibile gli eventi con un taglio documentaristico,
da cinemaverità. Non credo, infatti, che ci sarà mai un
libro o un film o qualsiasi altra forma di espressione in grado di rappresentare
il vero orrore dello sterminio nazista. Nel mio film cerco di darne un'idea,
voglio convincere la gente che non può voltare le spalle a quello
che è accaduto e fingere che esista solo il domani... Ho una coscienza
politica da quando sono diventato padre. Dieci anni fa, quando mi intervistavano
per E.T. ero fiero di dichiarare che ero politicamente agnostico, che
mi ero interessato ai Beatles sei anni dopo gli altri e che la guerra
del Vietnam mi era passata sopra la testa. Schindler's List è diverso
da tutto quello che ho fatto finora, forse perché ho buttato via
una serie di attrezzi del mestiere. Uno è la gru, l'altro è
il colore. Ho limitato i miei strumenti per far sì che la storia
fosse l'unica forza del film, senza scene a effetto - sperando che questo
non lo renda noioso ma girando rapidamente: da trentacinque a quaranta
scene al giorno. Ho girato più scene in cinque settimane per SchindIer's
List che negli ultimi cinque film messi in fila".
Sul viale dei Giusti di Gerusalemme che conduce allo Yad Yashem, la fondazione
in memoria dei martiri e degli eroi, c'è un boschetto di carrubi.
Ogni suo albero è stato piantato da un uomo insignito dell'onorificenza
di Persona Retta. E fra gli altri, c'è l'albero piantato da Oskar
Schindler, il tedesco dei Sudeti dal fascino alla Charles Boyen, gran
donnaiolo, gran bevitore, grande bugiardo e salvatore di ebrei. L'aitante
Liam Neeson, all'inizio del film, è ripreso volutamente dal basso:
una figura "gigantesca", che sovrasta lo sporco grigiore dell'ambiente
e non si lascia definire con precisione. L'industriale, arrivato a Cracovia
per mettersi in affari, è un uomo tutt'altro che virtuoso, di principi
morali ambigui, nient'affatto disposto ad inimicarsi un regime che pure
deplora. Rilevando una smalteria confiscata ed usando come operai ed impiegati
gli ebrei concentrati nel ghetto, l'imprenditore spregiudicato spera di
ricavare interessanti profitti... Pur iscritto al partito ed amico personale
dei capi delle SS, non partecipa al fanatismo dilagante e preferisce ingaggiare
un duello d'astuzia con l'apparato militar-ideologico che ha blindato
il paese. L'intelligenza del film sta tutta in questa prospettiva mobile,
nell'occhio della cinepresa che prima dilata e scompone gesti e comportamenti,
poi s'immerge nel sottofondo di malessere e nausea e solo più tardi
emerge per inquadrare "a figura intera" il nuovo Schindler. Le tecniche
di racconto, intanto, riproducono uno dei procedimenti infallibili del
regista e cioè l'alternanza thrilling di buio/luce, dentro/fuori,
vuoto/pieno. La fotografia, preziosamente contrastata, serve perché
la paura, la fame, il freddo e l'odore di morte invadano platealmente
quel comfort esistenziale che costituisce l'unica religione di Oskar.
E il montaggio alternato raggiunge effetti di un'intensità degna
dei classici del cinema muto: l'audacia visiva determina la forza emotiva
più ancora del contenuto della narrazione. Mentre la colonna audio
(grazie anche al nuovo sistema Dts) differenzia i suoni quotidiani e realistici
della crudeltà e dell'orrore dalle "eccezionali" sottolineature
dell'accompagnamento musicale di John Williams.
Notevole anche l'applicazione degli attori: Liam Neeson, fermo come una
roccia eppure credibile nella difficile progressione verso la pietas;
Ben Kingsley, straordinario nel conferire persino sfumature ironiche alla
figura del ragioniere ebreo Stern, diventato braccio destro (e buona coscienza)
di Schindler; Ralph
Fiennes, agghiacciante come e più del Marlon Brando de I giovani
leoni, nel ruolo dell'aguzzino Amon Goeth. All'inizio, il frivolo Oskar
così giustifica l'attaccamento a Stern (già impegnato a
salvare i perseguitati, sia pure "nell'interesse dell'azienda"): "Nella
vita, secondo mio padre, servono un buon dottore, un prete indulgente
e un bravo contabile". Ma poi, quando il ghetto viene distrutto e gli
ebrei trasferiti nel campo di concentramento, comprende la necessità
di avvicinare Goeth, di convincerlo dell'indispensabilità della
mano d'opera ebraica per la fabbrica e di ammorbidirlo con attenzioni
e regali. Senza diventare un kamikaze filantropico ed intenzionato ad
abbandonare Cracovia, stila, tuttavia, insieme al fedele Stern, una lista
di nomi di operai con l'intento di salvarli da Auschwitz facendoli trasferire
in una nuova fabbrica-paravento a Brunnlitz. Spielberg non è stato,
certo, il primo regista ad aver messo in scena il macabro periodo ma nel
suo film il pathos è davvero inaudito, eroico: quando la Gestapo
rastrella donne e bambini, quando i corpi stramazzano al colpo della pistola
a bruciapelo, quando Goeth si diletta a sparare dal balcone della sua
villa sui suoi schiavi intenti al lavoro, quando si chiacchiera del più
e del meno tra un'esecuzione e l'altra. Coraggiosamente inedito nel mettere
in evidenza la corruttibilità degli "onnipotenti" e nell'accennare
ad un argomento-tabù, il collaborazionismo dei prigionieri, è
particolarmente efficace nel cogliere il formicolio di una folla indistinta,
di una massa schiacciata e, nel contempo, nello scolpire volti, espressioni,
caratteri che s'incidono nella memoria dello spettatore forse più
a fondo di quanto non abbiano potuto le celebri e tristi immagini dei
documentari: specialmente quando coinvolge i bambini con quella delicatezza
di cui lui solo è capace. Bambini strappati alle madri ed ammassati
in un camion (con l'immagine indimenticabile della piccina vestita di
rosso che spicca nel bianco e nero come un simbolo di sopravvivenza),
bambini nascosti nel liquame delle latrine per sfuggire al massacro, bambini
che si adattano ad un orrore che non capiscono con uno spirito di sopravvivenza
che ha del miracoloso (o del "magico", nel senso della fuga delle biciclette
di E.T nell'azzurro del cielo).
La critica più sensibile valorizzò il film e non mancarono
le analisi sofisticate e brillanti che costruivano una rete strettissima
di somiglianze tra Jurassic Park e Schindler's List. L'intento, lodevole,
era quello di smascherare l'ipocrisia di chi aveva criminalizzato il primo
film per una supposta e distruttiva pericolosità culturale ed ora
saltava, disinvoltamente, sul carro di un artista diventato di colpo ispirato,
disinteressato e progressista. È verissimo, del resto, che non
si può deplorare il mestierante miliardario quando fa braccare
il povero E.T.
dai cani dello sceriffo ed esaltarlo quando staglia donne lacere e terrorizzate
all'ombra delle ciminiere di Auschwitz: smascherarlo se fa ballare un
vivo con un trapassato in Always e poi incoronarlo perché dal simbolo
terribile della bambina uccisa e riversa sul carro e dai superstiti che
s'incamminano nella pianura stacca sui veri "ebrei di Schindler" che sfilano
davanti alla tomba del loro protettore, nei colori accesi dell'oggi, accompagnati
o sorretti dai rispettivi interpreti: deriderlo quando aspirava all'Oscar
sulle ali della felicità di immense platee popolari e laurearlo
sull'onda di un paio di battute elettorali di Bill Clinton. Bisogna anche
aggiungere, però, che il gergo dello specialismo non basta a spiegare
la peculiarità di Schindler's List, film che pretende a buon diritto
di entrare nel vivo del dibattito storico-politico. In realtà,
il regista non ha fatto altro che esercitare la duttilità, l'adattabilità,
l'eccletismo di quell"'arte industriale", preconizzata da Flaubert, di
cui è diventato indiscusso maestro. Regista americano nel senso
così bene circoscritto da Ernesto Galli Della Loggia (in un memorabile
articolo sul "Corriere della Sera"), sa bene che nessun film può
salvare il mondo ma può permettersi di esprimere, senza mistificazioni,
una limpida fiducia nei valori del bene, della legalità, della
libertà collettiva e dell'onestà individuale. Alla critica
che lo ha sempre considerato una figura ingombrante e fuorviante, è
riuscito a dimostrare di essere in grado di stravincere anche in un genere
diverso, più o meno a ragione considerato nobile e consacrato.
Viene persino voglia di chiedersi, pensando a tanti, presunti campioni
della poesia ineffabile e del verismo pauperistico: riuscirebbero, a ruoli
e budget invertiti, ad allestire in scioltezza un kolossal fantastico
gradito alle folle intercontinentali? Comunque, nello sterminato archivio
degli articoli, dei saggi, dei capitoli di libri dedicati al film prima
e dopo il traguardo degli Oscar, spiccano due interventi un po' meno legati
alle categorie della recensione.
Per Furio Colombo: "Steven Spielberg ha rivisitato la storia e ne è
uscito senza ferite. È un fatto molto raro se si pensa al compito
che si era imposto: narrare tutto l'Olocausto usando un solo episodio,
la fabbrica di Schindler, e affidando la conduzione della vicenda a un
eroe positivo che è tedesco e nazista... Molti "ebrei di Schindler",
come essi stessi si definiscono, sono ancora vivi. Per quanto ne so nessuno
di essi, in America o Israele, ha contestato la narrazione di Spielberg.
Si sono fatti avanti indicando il loro nome cambiato, precisando questo
o quel particolare. Ma tutti hanno mostrato di essere fedeli alla memoria
di Schindler e affettuosamente grati della ricostruzione di Spielberg.
Come è possibile, visto che Schindler's List ha decisamente una
narrazione da grande fiaba? Una risposta la propone David Margolick, sul
"New York Times": "Ci voleva l'uomo dei dinosauri per rendere credibile
l'incredibile"... Con la storia di Schindler, non "buono", eppure unico
salvatore di gente perduta da una condanna accettata da tutti entra in
scena il regista delle storie impossibili, l'uomo del cinema che ti fa
credere nei mondi impossibili, ti fa commuovere con E.T., ti fa toccare
l'universo dello spazio e quello della preistoria. Ha ragione il critico
del "New York Times". Ci voleva un uomo con queste doti per rendere credibile,
epica, realistica, una storia che è allo stesso tempo assolutamente
impossibile e assolutamente vera, che sembra lontana mille anni e invece
appartiene alla nostra civiltà e al nostro tempo... È il
primo film su quei tempi fatto da qualcuno che allora non c'era, che non
ha visto mai la guerra se non al cinema, che conosce i soldati tedeschi
dalle cineteche, che si è riempito gli occhi di sequenze viste
in moviola ... Steven Spielberg, uomo giovane nato dopo la guerra, viene
avanti e dice: datemi il pacco dei documenti, tocca a me portarlo un po'
più avanti. Accusatelo di essere hollywoodiano, se volete, per
il modo abile con cui muove le masse, per il passo epico delle sue inquadrature,
per il montaggio incalzante, per il commento del violino di Itzak Perlman
che è come una riflessione continua. L'operazione, come è
sempre avvenuto nella storia della cultura è questa: io mi impossesso
di tutto quello che sappiamo di questa storia, e la racconto come so raccontarla
io, con l'impronta, lo stile, i modi del mio tempo. Infine c'è
ancora una grande lezione... Il luogo è la Polonia. Il protagonista
è tedesco, gli ebrei di Schindler, e tutti gli altri che si vedono
morire sul fondo, vengono da tutte le nazioni invase... La mano di Spielberg,
in questo film, come in E.T., come ne L'impero del sole, ha questo di
bello: non ti consente mai di dire che sei al chiuso di una sola avventura
accaduta in un solo luogo".
Nel più acuto commento pubblicato in Italia, Guido Fink inizia
col rievocare il discusso passaggio finale, quando l'ufficiale russo "libera"
quel migliaio di ebrei abbandonati e gli dice che, forse, c'è una
città che possono raggiungere dietro l'orizzonte; prima che il
film rifiorisca nel colore e si trasformi nella sfilata documentaristica
dei personaggi ormai vecchi che depongono un sassolino sulla pietra tombale
di Schindler: "Potrebbe sembrare una sorta di retorica passerella finale
ed è invece un momento straordinario... È il momento in
cui s'incontrano, e pur senza fondersi si rispecchiano l'una nell'altra,
le due anime del film: quella che il regista, per la prima volta lontano
dal gusto della tecnologia e del superspettacolo che gli ha dato il successo,
vorrebbe documentaria (in realtà le sequenze nel lager, o la sanguinosa
liquidazione del ghetto di Cracovia del marzo 1943, sono riprese e montate
con uno stile tutt'altro che neutro, che ricorda caso mai le sequenze
più forti e più riccamente orchestrate del cinema d'avventure
fordiano), e quella francamente romanzesca e hollywoodiana, al servizio
di una vicenda che per altro pare rigorosamente storica. Come a teatro,
al momento della "decompressione" e dei saluti al pubblico, gli attori
sono un poco rigidi, compunti: al confronto i vecchietti "veri" che danno
loro il braccio sono molto più disinvolti... La stessa forza espressiva
qui raggiunta da Spielberg, la perfetta, diabolica mescolanza di emozione
e di suspense contenuta nella sceneggiatura, provocheranno prevedibili
accuse: si parlerà di Indiana Jones contro l'Olocausto, qualcuno
ricorderà il monito di Elie Wiesel secondo cui una letteratura
ispirata al genocidio sarebbe una contraddizione in termini. Ma è
anche vero che fino a oggi il cinema americano non aveva veramente affrontato
l'argomento: prima e durante la guerra per prudenza e autocensura, poi,
almeno in parte per lo stesso ritegno e imbarazzo per cui scrittori come
Malamud, Bellow o Roth esitavano a parlare di qualcosa che gli ebrei americani
non avevano direttamente sperimentato. Schindler's List, film con cui
Spielberg cerca di guarire dalla sindrome adolescenziale di Peter Pan
e di interrogarsi sul senso delle proprie radici, non ha nulla a che vedere
con le meditazioni a carattere lirico o documentario del cinema europeo,
Notte e nebbia, Shoah o Il dolore e la pietà, proprio come certe
ricostruzioni surreali e sulfuree dell'universo concentrazionario tentate
di recente dalla narrativa ebraico-americana, ad esempio quella di Cynthia
Ozick, non somigliano alle testimonianze dirette e ai ricordi di un Primo
Levi o di un Jona Obierski. Ma è innegabile che l'operazione di
Spielberg abbia una sua coerenza, e che la sua veste formale, i suoi stessi
legami con la più scaltrita tradizione spettacolare del cinema
americano ne costituiscano, per così dire, un correlativo necessario
e perfetto... Quel che assolutamente non piacerà a chi conservi
qualche illusione sulla Storia come espressione di moralità trascendenti,
è il fatto che l'unica speranza di sopravvivenza si identifichi,
sia pure inizialmente, con la logica del capitale, per cui appare controproducente
affamare gli operai o mandarli nelle camere a gas; il business, come dice
Schindler a Goeth, non si fa così. In questo senso, Spielberg non
solo non rinnega i suoi film più spettacolari (né si vede
perché dovrebbe farlo), ma non rinnega nemmeno Hollywood, anzi
ne ribadisce l'insostituibile funzione come ultima frontiera e metaforica
conservazione a futura memoria, di tutte le narrazioni possibili: anche
le più dolorose e remote, anche quelle più apparentemente
antitetiche alla natura dell'entertainment. E al termine di questo film
- comunque bellissimo - è forse proprio a Hollywood che gli ebrei
di Schindler si dirigono, quando si incamminano in quella pianura deserta,
alla ricerca di una città".
In effetti, la forza del film sta nella sua epigrafe ideale: non è
necessario essere santi per fare del bene. A conferma implicita di ciò
che rende omogeneo e vincente il rapporto del cinema Usa con la cultura
patria. In Schindler's List la sinergia di ambientazione europea, soggetto
europeo e "democrazia dell'eroismo" peculiarmente americana (con tanto
di sottolineatura del valore dell'intraprendenza, della genialità
e del sacrificio individuali, contrapposto all'imbelle inefficacia dei
progetti salvifici universali) ha saputo raccontare l'irraccontabile e
fatto pulsare il senso ultimo della Shoah. L'erede delle novecentesche
utopie assassine, l'odierno integralista - sembra suggerirci Spielberg
- è chi vuol creare comunità ideali, buone e pure, al di
fuori delle quali tutto è malvagio. Così nascono i miti
del proletariato, della razza o della nazione di cui la "purificazione
etnica" serba è l'esempio più vistoso. La sera di lunedì
21 marzo 1994 la leggenda del piccolo Steven, il ragazzino che tentò
d'ingoiare un minuscolo microprocessore - il rivoluzionario dispositivo
dei computer odierni - col quale il padre, ingegnere elettronico, aveva
voluto sorprendere la famiglia, si è perfettamente, circolarmente
conclusa in storia. Annunciati da Whoopi Goldberg, proprio la brillante
attrice lanciata da Il colore viola, ben dieci Oscar furono assegnati
a Spielberg: sette per Schindler's List e tre per Jurassic Park. Al primo
film, in particolare, andarono le statuette di miglior film, migliore
regia, miglior fotografia, miglior soggetto non originale, migliore colonna
sonora, miglior montaggio, migliore scenografia: un trionfo. Sul palcoscenico
del Chandler Pavillon di Los Angeles, Harrison Ford consegnò la
più prestigiosa al regista che lo aveva lanciato e Steven, con
un sincero groppo alla gola, dedicò il trofeo così a lungo
e strenuamente sognato ai sei milioni di ebrei morti nei campi di concentramento,
implorando gli insegnanti del suo paese "affinché non riducano
l'Olocausto a una semplice nota a pié di pagina della Storia".
Il perbenistico zio Oscar, comunque, non aveva proprio potuto fare a
meno di sfiorare lo Spielberg n° 2, il prestidigitatore dell'immaginario
ritenuto un criminale, o quasi, dal khomeinismo euro-corporativo, assegnando
le tre medaglie tecniche a Jurassic Park. Ma anche nella furbesca e diplomatica
sproporzione s'intravede un assioma vincente: il linguaggio cinematografico
è uno solo e può
mettere lo spettatore in crisi con se stesso ovvero fornirgli magnifiche
consolazioni; può stabilire un "patto" col fruitore ingenuo o soltanto
col fruitore critico: il meglio è quando ci riesce con entrambi.
Non c'è nulla di sconveniente nell'aggiungere un corollario alla
sfida vinta dall'ex Golden Boy: adattare il talento all'argomento è
stato il viatico per meritarsi il titolo ufficiale di "autore". Come non
sottintende alcuna malignità ricordare la forte spinta impressa
al film dalle lobbies ebraiche, tra le più autorevoli ed influenti
degli Usa. Si sa, del resto, che con le sue diecimila pellicole e cinquemila
videocassette, l'archivio filmico "Steven Spielberg" è oggi la
più completa testimonianza della storia degli ebrei nel mondo:
creato a Gerusalemme nel '69, per opera di uno storico dell'Hebrew University,
l'archivio ricevette una ingente donazione da Spielberg e prese il nome
del regista americano. Tra le varie collezioni è di grande importanza
quella chiamata "Holocaust", per la quale fu siglato un accordo tra il
Ghetto Fighters' Museum, maggiore centro di ricerca israeliano sull'Olocausto
e l'Archivio Spielberg affinché tutto il materiale appartenente
a questa istituzione fosse trasferito nella cineteca. Negli anni, poi,
le organizzazioni ebraiche di tutto il mondo hanno procurato all'archivio
copia dei loro film e tutte quelle istituzioni israeliane che non hanno
la possibilità di conservare le proprie pellicole lo hanno eletto
a deposito ufficiale e centro di consultazione (i suoi terminali sono
collegati al sistema informatico del Centro Computer dell'Hebrew University
e a quello bibliografico dell'Institute of Contemporary Jewry).
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"SCHINDLER'S LIST"
di Massimo Cavallini
"La guerra è finita e la Germania l'ha perduta. lo sono un tedesco,
un profittatore di guerra ed un membro dei partito nazista. Mi scuserete
dunque se, a questo punto, vado a preparare i miei bagagli". Con queste
parole, ormai sul finire dell'ultimo acclamatissimo film di Steven Spielberg,
Oskar Schindler ufficialmente si congeda dai prigionieri ebrei del campo
di lavoro da lui diretto. Appena il tempo, ancora, per vedere la sua auto
sovraccarica allontanarsi nella notte. E per assistere, cambiato completamente
scenario, alla sequenza finale della pellicola. Non più in bianco
e nero, questa volta, ma negli "splendori del Technicolor". Non più
nella perenne penombra della Polonia dei campi di sterminio, ma sotto
il sole mediterraneo della Gerusalemme di oggi. Dove quegli stessi prigionieri
- o, più spesso, i loro figli - rendono compunto omaggio alla tomba
di quel tedesco nazista e profittatore di guerra. All'uomo che li aveva
salvati.
"Schindler's list, la lista di Schindler, è in fondo soprattutto
questo: la storia di una strana conversione. Ed il tratto più originale
ed interessante dei film sta, probabilmente, proprio nel fatto che una
tale metamorfosi - da villano a salvatore - sembra attraversare il protagonista
senza trasfigurarlo né modificarlo. Poiché tra l'Oskar Schindler
che s'arricchisce alle spalle degli ebrei perseguitati e quello che, alla
fine, si rovina per salvarli dalla prigionia e dalla morte, non corrono,
almeno in superficie, molte differenze. Schindler era - e resta lungo
tutto l'arco della pellicola - uno spregiudicato bon vivant, un "antieroe"
che dalla propria relazione col mondo pretende soprattutto soldi, belle
donne e champagne. E che proprio per questo suo edonistico amore alla
vita sembra essere - nella visione di Spielberg - il più perfetto
antidoto della follia nazista.
La storia di SchindIer e della sua lista - già raccontata dodici
anni fa in un libro dello scrittore australiano Thomas Kenneally - comincia
il giorno in cui, subito dopo l'invasione nazista della Polonia, il protagonista
giunge a Cracovia deciso come lui stesso dice - "a cavalcare la bella
donna che più può cambiare, in meglio o in peggio, la vita
d'ogni uomo: la guerra". L'immensa tragedia che sta per sconvolgere il
mondo non è, per lui, che un'occasione per tradurre in prassi la
filosofia cui più ispira la propria esistenza: guadagnare molti
soldi, guadagnarli possibilmente alle spalle dell'altrui lavoro e spenderli
per il proprio piacere. Non è, Oskar Schindler, né un nazista
né un antisemita. E' soltanto un opportunista, uno speculatore
deciso a collocarsi saldamente sulla sella del "cavallo vincente" ed a
costruire le proprie fortune sulle disgrazie degli ebrei polacchi. Forte
della propria contiguità con le autorità naziste - e sfruttando
capitale e lavoro delle vecchie élites giudaiche ora perseguitate
e rinserrate nel ghetto - avvia una fabbrica metallurgica. "Noi ci mettiamo
i soldi e la manodopera - gli chiede un giorno irritato il suo capocontabile
ebreo -. E lei che cosa ci mette?'. "L'immagine", gli risponde Schindler
ammiccante e sfacciato.
La "svolta" - una svolta graduale e quasi impercettibile - avviene allorché,
attorno all'avviato e proficuo tran-tran degli "affari di guerra" di Herr
Schindier, gli eventi cominciano a precipitare. Dall'alto delle colline
che circondano Cracovia, durante una gita a cavallo, Oskar assiste all'evacuazione
del ghetto ed all'inizio della deportazione verso i campi di sterminio.
E nella sorte d'una bambina dall'abito rosa - unica poetica e tragica
macchia dì colore nel bianco e nero del film - vede finalmente
riflessa la logica di morte del nazismo, la crudeltà insensata
di quella persecuzione contro un popolo. Poco più tardi lui stesso
viene brevemente arrestato, per quello che considerava il più benefico
e naturale dei gesti: baciare in pubblico una donna ebrea. E da speculatore
diviene salvatore. Nella sua vita cambia tutto e, al tempo stesso, non
cambia nulla. Non cambia nulla perché, imperterrito e gioviale,
Oskar continua a frequentare ed a corrompere, con donne e danaro, i gerarchi
nazisti (primo fra tutti il sinistro Amori Goeth, sanguinario capo del
campo di lavoro di F'Iaszow). E cambia tutto perché il suo unico
e sempre più ossessivo scopo è, ora, quello di sottrarre
vite umane all'immensa macchina di sterminio messa in moto dal regime
che ha fin qui servito, dalla "bella donna" che, un tempo, aveva cinicamente
sperato di sedurre. Alla fine la lista di Schindler" arriverà ad
includere 1200 nomi, il più alto numero di ebrei mai salvati, durante
l'ultima guerra, da un solo individuo. E grande resterà, per sempre,
la gratitudine degli Schindlerjude. "Noi - scriveranno nel '61,
durante il processo ad Eichmati - non dimentichiamo le pene d'Egitto,
non dimentichiamo Haman e non dimentichiamo Hitler. Per questo, tra gli
ingiusti non dimentichiamo il giusto. Non dimentichiamo Oskar Schindier".
Resta ovviamente, alla fine di questa vicenda insieme nobile ed ambigua,
una domanda senza risposta. La stessa che - come riferisce nel suo libro
Thomas Kenneally - un giornalista rivolse a suo tempo al medesimo Oskar
Schindler. "Come spiega il fatto - gli chiese - che durante il massacro
degli ebrei lei continuasse ad intrattenere intimi rapporti con tutti
i capi delle SS tedesche in Polonia?". SchindIer se la cavò, in
quell'occasione, con una battuta brillante e spiritosa. In quegli anni
- replicò da par suo - sarebbe stato difficile discutere il destino
degli ebrei con il rabbino capo di Gerusalemme".
Sagge parole. Sagge e tuttavia, ancora una volta, prive d'un vero alito
di ribellione. Schindler ha salvato vite umane. Ne ha salvate molte con
la pragmatica furbizia del giunco capace di piegarsi sotto la corrente
impetuosa della morte. Ma mai si è davvero posto il problema di
fermare la corrente, di spezzare la macchina sanguinaria del nazismo.
E certo è che, per quanto lunga fosse diventata la sua "lista",
ben poco essa avrebbe cambiato della realtà del genocidio in corso.
Quella della "Schindler's list rimane - nella vita reale e nel film di
Spielberg - una bella storia. Ma non tutta la storia. E non quella, forse,
che più aiuta a capire.
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SCHINDLER'S LIST, TRA FICTION E STORIA
di Maria Pelizzatti
Nel giorno in cui Gerusalemme ha celebrato la Giornata della Memoria,
anche la Rai ha reso omaggio alla ricorrenza creando un evento mediatico
straordinario. La programmazione della Prima Rete di lunedì 5 maggio
è stata infatti quasi interamente dedicata alla commemorazione
della Shoah, lo sterminio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale.
In una sorta di intensa ed emozionante staffetta-cavalcata, fin dalla
mattinata sullo schermo sono passate immagini delle camere a gas, dei
genocidi, storie di bambini ebrei che vissero la tragedia della discriminazione
razziale, interviste ai sopravvissuti ai campi. Quindi alle 21, preceduta
da uno special di Gad Lerner, è stata proiettata, in prima visione,
la pellicola di Steven Spielberg "Schindler’s List", che nel
’94 alla cerimonia degli Oscar si aggiudicò sette statuette. Il
film, stando alle rilevazioni Auditel, ha ottenuto un clamoroso ascolto
di oltre 12 milioni di telespettatori (dato che lo colloca tra le prime
venti posizioni delle pellicole più viste). L’iniziativa della
Rai non solo ha incontrato il consenso del pubblico, ma ha anche ottenuto
l’apprezzamento e il plauso da parte di Tullia Zevi, presidente dell’Unione
delle Comunità Ebraiche, di Elio Toaff rabbino capo di Roma, e
di esponenti del mondo politico, primo fra tutti Walter Veltroni. Tutti
concordi nel sostenere l’importanza della commemorazione, in un momento
di pericoloso revisionismo (vedi le dichiarazioni di Vittorio Emanuele
sulle leggi razziali, i cori di Padova contro i due calciatori nigeriani
e altri tristi episodi), e soprattutto la necessità che anche i
più giovani conoscano una delle pagine più drammatiche e
vergognose della storia del nostro secolo. Vi è stato però
anche chi, pur apprezzando l’ampio spazio dedicato alla commemorazione
dello Shoah, ha espresso dei dubbi riguardo alla scelta della pellicola
di Spielberg. Lo storico Raul Hilberg, in un' intervista rilasciata al
Corriere della Sera, sostiene che Schindler’s List "non
è un film sullo sterminio degli ebrei. E’ soltanto la storia di
una persona, per di più scandita da alcune inesattezze. Ci vuole
ben altro per raccontare l’annientamento di un popolo". Lo studioso
è convinto che "la Storia, quella con la "S" maiuscola, non
va confusa con la cronaca romanzata di una vita". In effetti la pellicola
di Spielberg può essere considerata la cronaca romanzata di una
vita, dal momento che è tutta incentrata sulla storia di Oskar
Schindler, piccolo industriale tedesco, che nel 1939, all’indomani dell’invasione
della Polonia da parte dei nazisti, giunge a Cracovia con l’intenzione
di arricchirsi sfruttando la manodopera a basso costo degli ebrei in una
fabbrica di vasellame. Pian piano, colpito dalla ferocia dei persecutori,
scopre quasi inavvertitamente un senso di solidarietà, la spinta,
quasi una esigenza interiore, a far qualcosa per un altro. La sua "missione"
diventa dunque quella di salvare i suoi operai dallo sterminio. Si ridurrà
in povertà, ma per merito suo, 1100 ebrei (quelli della lista)
destinati ai campi di sterminio, sopravviveranno alla guerra. Il film
si apre e si chiude con l’omaggio dei veri superstiti alla tomba del vero
Schindler a Gerusalemme. Spielberg si sottrae al rischio di offrirci una
descrizione agiografica del protagonista, rappresentandolo anzi come un
donnaiolo, filonazista, senza scrupoli. Non un santo, non un eroe, ma
un uomo comune, un Giusto. Il film può essere letto, o meglio visto,
semplicemente come la "cronaca romanzata di una vita", secondo
il suggerimento di Hilberg. Ma sono del parere che ci sia di più.
Il regista costruisce, intorno alla storia di Schindler, un affresco straordinario,
di larghissimo respiro, di grande forza. Contribuisce senza dubbio a questo,
l’utilizzo del bianco e nero (un tentativo di assimilarlo ai documenti
dell’epoca), tecnica che si rivela di singolare potenza e intensità.
Unica indimenticabile macchia di colore e il cappottino rosso della bambina,
che attira l’attenzione del protagonista mentre cerca di sfuggire, nascondendosi,
ai tedeschi. E la macchina da presa la segue su per le scale di un edificio
(non è più Schindler a vederla, siamo noi). Una specie di
segno distintivo che attira l’attenzione del protagonista, che guarda
da lontano la scena. Rivedrà, nel campo di concentramento, quello
stesso cappotto, sul corpicino morto. Questa macchia di colore sintetizzando
il significato del film, ne costituisce la molla drammaturgica, e spiega
la ragione della svolta nella vita di Schindler. Di notevole impatto emotivo
anche le scene relative alla liquidazione del ghetto il 13 marzo 1943
(a mio avviso le più belle e riuscite). "Schindler’s List"
è senza dubbio un gran film romanzesco, un grande melodramma. Chi
gli contrappone le austere immagini girate dall’inglese Sydney Bernstein
nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, all’indomani dell’arrivo
degli alleati, dimentica che qui siamo in piena fiction, che, in quanto
tale, non può essere paragonata al documento. Ha sicuramente ragione
Hilberg quando suggerisce di non confondere quanto si vede nella pellicola
con la Storia. Tuttavia se il film, con la sua ricostruzione storica romanzata
che riesce a dosare opportunamente memoria, dolore ed emozione, ha il
merito di toccare il cuore e la coscienza dello spettatore, di ricordargli
le peggiori atrocità del ventesimo secolo, ha ottenuto un buon
risultato. Questo è quanto si proponeva Steven Spielberg accingendosi
ad un’opera di tale portata. Commentando i sette Oscar vinti, il regista
non ha perso l’occasione per lanciare un monito: "Non lasciate che
l’Olocausto sia una semplice nota a pie’ di pagina della storia. Siate
attenti agli echi dei fantasmi, insegnatelo nelle vostre scuole".
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Molto umano
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Roberto, 20 anni, Maglie (LE).
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(10 Settembre 2002)
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Sinceramente ero un po' indeciso se vedere o no questo film dal
momento che lo sterminio degli ebrei è un argomento che mi
fa accapponare la pelle; poi però ho deciso di vederlo e
devo dire che ne è valsa veramente la pena; steven spielberg
è e rimarrà il mio regista preferito dato che i suoi
film riesce a farteli vivere, a farti sentire il protagonista del
film; in questo poi ha saputo trattare il tema purtroppo molto triste
dell'olocausto dei sei milioni di ebrei in un modo impareggiabile;
inoltre c'è davvero da elogiare liam neeson per la sua favolosa
interpretazione del personaggio di oscar schindler: un'uomo ricco
sfondato, appassionato del buon cibo, delle belle donne, egocentrico,
e inoltre iscritto al partito nazista; naturalmente non ci si aspetta
certo da un uomo con questo profilo il gesto di profonda umanità
che poi compierà nel corso del film e cioè salvare
1000 ebrei da una morte sicura e atroce nei campi di sterminio;
per farla breve questo film è qualcosa di indescrivibile
poichè riesce a trasmetterti gli orrori del nazismo in maniera
abbastanza realistica (basti pensare ad amon goeth, il generale
nazista, che non ha un briciolo di rispetto per la vita umana poichè
si alza la mattina e prima di prendersi il caffè uccide due
persone con un fucile dal balconcino della sua villa); su questo
film ci sarebbe da parlare per un giorno intero ma purtroppo i caratteri
disponibili non sono molti e quindi devo stringere un po'; voglio
solo fare una piccola precisazione sulla conclusione; la scena di
schindler che scoppia a piangere davanti a tutti gli operai che
ha salvato dicendo che ne avrebbe potuto salvare almeno uno vendendo
anche la spilla d'argento con la svastica è molto bella e
a dir poco commovente; solo che se da un punto di vista cinematografico
questa scena è davvero molto bella, non si può dire
lo stesso da un punto di vista umano; infatti da oscar,un uomo molto
forte caratterialmente non credo che ci si sarebbe aspettata una
reazione di quel tipo; ma d'altra parte è un essere umano
anche lui; concludo rivolgendo una frase a tutti coloro che hanno
visto questo film e che di conseguenza considerano i nazisti delle
bestie e non degli esseri umani: non dimenticate!!!!!!!!
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se questo non e' un capolavoro.....
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Dea, 15 anni, prov.roma.
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(9 Settembre 2002)
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Non ho mai pianto tanto per un film quanto per questo e x "la vita
e' bella" di Benigni.... Questo film tocca nel profondo, magari
alcuni lo troveranno crudo ma mai quanto possa esserla stata la
realta'.Il finale e' superbo e le lacrime ti sgorgano da sole...e
quella bambina dal cappottino rosso... Se reggete vedetelo!! Altrimenti
consiglio a tutti gli altri di continuare a guardare "Superquark"
o "Indiana Jones"...
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Vandalismo in un cimitero
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Fabio, 14 anni, Bari
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(24 Agosto 2002)
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Mediocre, mediocre, mediocre. Vorrebbe far riflettere, ma fallisce.
Vorrebbe far commuovere, ma fallisce. A tratti vorrebbe far sorridere,
ma fallisce. Il bianco e nero vorrebbe essere un'idea originale,
ma fallisce. Liam Neeson è poco espressivo, idem gli altri
attori. Le musiche sono degne della peggior Marlene Dietrich feat.
Leone Di Lernia. Spielberg sembra proprio esersi montato la testa,
ora che è ricco, e i capolavori come "Lo squalo", "Duel",
e alla serie "Indiana Jones" sembrano lontani anni luce. E alla
fine cosa resta? un gruppo di arteriosclerotici che scrivono i propri
nomi sulla tomba di Schindler (Ma questo è vandalismo!!!!!
Al confronto, "Dobermann" è più educativo di Superquark!!!!!).
I conclusione, fiasco su tutti i fronti (visto che parliamo di guerre...),
e tre ore che potevano essere spese (insieme ai soldi della cassetta),
per altro di più interessante. Personalmente, mi ha lasciato
indifferente.
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Incredibile !!!!
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Saccowar, 16 anni, Torino.
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(18 Agosto 2002)
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Davvero splendido, curato in tutti i dettagli! ottimo è
dire poco.
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