di Roberto Benigni
con Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, Sergio Bustric,
Giustino Durano e Giorgio Cantarini.
ITA, 1997.
Distr.: Cecchi Gori
Un uomo rinchiuso in un campo di sterminio con la
famiglia salva il figlio dall'orrore facendogli credere che è tutto
un gioco.
Nel 1938 Guido Orefici (Roberto Benigni) arriva in
una città della Toscana dove vuole aprire una libreria. Intanto
lavora come cameriere presso il Grand Hotel dove conosce Dora (Nicoletta
Braschi), una ragazza di buona famiglia promessa sposa di un ottuso funzionario
comunale, esponente del partito fascista. Innamorato perso, Guido gioca
ogni carta per conquistarla, arrivando a "rapirla" durante la sua festa
di fidanzamento. A guerra iniziata, Guido e Dora si ritrovano felicemente
sposati e genitori di Giosuè (Giorgio Cantarini), un bimbo di cinque
anni. Quando vengono promulgate dal governo fascista le leggi razziali,
Guido e il bambino, a causa delle loro origini ebraiche, vengono deportati
in un campo di sterminio. Comincia così il travaglio di Guido per
preservare il proprio figliolo dalle violenze fisiche e psicologiche dei
nazisti: la soluzione è di fargli credere che si tratta di un gioco
a premi organizzato cui partecipano tutti i prigionieri e che contempla,
quale ambito primo premio, un carro armato vero.
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Non c'è paragone tra le farse con le quali Benigni
aveva sbancato il botteghino nelle scorse stagioni cinematografiche e
questo autentico gioiello, col quale è riuscito a sorprendere quanti
in passato avevano storto la bocca di fronte alla sproporzione fra il
suo genio di clown e la sua mediocrità di autore. Non che Benigni
sia diventato improvvisamente un grande regista o che il film sia un capolavoro
perfetto; tutt'altro. Ma poco importa, tanta è la straordinaria
forza poetica dell'idea sulla quale lui e Vincenzo Cerami hanno costruito
questo indimenticabile apologo: usare il sorriso per preservare un bambino
dall'orrore, affinché in futuro possa continuare a pensare che
la vita è bella. E' un'idea degna di Chaplin per il perfetto dosaggio
di comicità e sentimento, di drammaticità e leggerezza,
di amarezza e di ottimismo, di irriverenza e di rigore morale. Un'idea
che celebra l'eroismo della fantasia, che fulmina in una luce assoluta
l'assurdità del razzismo della sopraffazione, che appaia l'intollerabilità
della violenza sui corpi a quella della mortificazione dell'anima. Sarebbe
stato facile per Benigni, forte dell'amore di un pubblico che sembra entusiasmarsi
per qualsiasi cosa faccia o dica, adagiarsi come un Pieraccioni sulla
facile replica di formule già collaudate. E invece, con questo
bellissimo film, colma in maniera definitiva l'abisso che separa il talento
dalla poesia. Ciò gli è valso il premio speciale della giuria
al festival di Cannes; o, come preferisce chiamarlo Benigni, il Dattero
d'Oro.
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"LA VITA È BELLA" IN TV, RECORD STORICO
È il film più visto di tutti i tempi:
16 milioni di spettatori. Benigni: grazie Italia
di Pasquale Elia
Corriere della Sera 24/10/2001
Grazie a Roberto Benigni, Raiuno ha battuto tutti i record
d’ascolto relativi alla programmazione dei film in tv. Trasmesso lunedì
scorso, il premio Oscar "La vita è bella" è stato
visto da 16 milioni e 80mila spettatori (53.67 per cento di share), annullando
così il primato che "Il nome della rosa" deteneva da
ben 13 anni. Nell’88 la pellicola di Annaud aveva incollato davanti allo
schermo più di 14 milioni di spettatori e da allora nessun altro
lungometraggio era riuscito a fare di meglio. "Ci aspettavamo 13
milioni di persone: siamo andati oltre le migliori previsioni", dice
soddisfatto il direttore di Raiuno, Agostino Saccà. Che attribuisce
il merito della vittoria all’"amore della rete per questo film e
per il modo con cui è stato promosso e curato". Non dimentica
gli "avversari", Saccà, costretti a mangiare la polvere.
Ma ai quali comunque rende l’onore delle armi: "Non hanno sprecato
un film del magazzino e hanno puntato su un pubblico diverso". Ogni
riferimento a fatti e personaggi è decisamente voluto: Canale 5
e il "Grande Fratello". La puntata straordinaria di nomination
di lunedì ha fatto registrare un ascolto del 21.03 per cento di
share (6 milioni e 38mila spettatori). Rispetto all’appuntamento della
settimana scorsa, il reality-show ha perso un po’ di pubblico, ma non
è franato. Un risultato che fa mantenere ancora il buon umore a
Giovanni Modina, direttore di Canale 5, tanto da permettergli di ricambiare
la cordialità espressa da Saccà: "Come spettatore sono
contento che quel film abbia fatto un gran risultato". E come dirigente
di rete? "Abbiamo raggiunto il nostro obiettivo, mantenendo il pubblico
femminile e giovane". Lascia che siano gli altri a scambiarsi affettuosità,
Vincenzo Cerami, co-sceneggiatore di "La vita è bella":
"La sfida con il "Grande Fratello" mi aveva un po’ seccato. Potevano
scegliere un "testo" competitivo in termini di qualità, piuttosto
che puntare su una delle cose più volgari che la tv abbia mai inventato".
Intanto in viale Mazzini si brinda per il trionfo della serata (con 8
milioni e 776mila persone, il "Fatto" di Enzo Biagi ha battuto
il concorrente diretto "Striscia la notizia", che invece ha
raccolto 8 milioni e 336mila spettatori): gioisce il presidente della
Rai, Roberto Zaccaria ("Il successo del film va al di là dei
numeri dell’Auditel"), ed esulta anche Benigni. Quando gli hanno
comunicato i risultati, si è messo a saltellare "felice come
un capretto in mezzo ai prati". Poi, come se davvero avesse davanti
quei 16 milioni di utenti, conclude: "Nicoletta Braschi e io vi ringraziamo
uno ad uno con tutto il cuore per l’amore che avete buttato addosso a
questo film".
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"LA VITA È BELLA ANCHE IN UN LAGER?"
di Dario Venegoni
L'attore toscano vince la scommessa: raccontare una favola intensa
e grottesca che parli dello sterminio degli ebrei nei campi nazisti. Un
film che fa ridere e piangere. E soprattutto discutere.
"Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!" Il piccolo Giosuè
(impersonato da Giorgio Can tarini) alza le magre braccia al cielo nel
grido del trionfo, ri trovando la mamma alla libe razione del Lager.
Nei cinema di tutta Italia cen tinaia di migliaia di
persone hanno riso e pianto vedendo l'ultimo film di Roberto Beni gni,
certamente il più difficile e rischioso. Vista l'accoglienza riservata
alla sua pellicola dal pubblico e dalla critica, anche Benigni può
ormai tirare un sospiro di sollievo e lanciare il grido del trionfo: "Abbiamo
vinto!". Non solo la pellicola ha stracciato ogni record di in cassi per
un'opera di questo genere, ma all'attore e regista toscano sono giunte
le felicita zioni anche dei critici più se veri, oltre che da molti
super stiti dello sterminio nazista.
Perché, per chi non lo sapesse, tutto il secondo
tempo del film si svolge in un immaginario Lager, dove l'ebreo toscano
Guido Orefice (lo stesso Benigni) è deportato insieme al fi glioletto
Giosuè, che incredi bilmente rimane con lui. Nel tentativo di tenere
il figlio al riparo dall'orrore, il padre in venta un gioco pazzesco a
uso e consumo del bambino, "traducendo" la vita del Lager in altrettanti
improbabili pas saggi di un gioco a premi, di quelli "da schiantarsi dalle
ri sate".
Il film corre lungo questo sot tilissimo crinale tra
il tragico e il burlesco, spingendosi fino a mostrare le selezioni per
le camere a gas, il lavoro forzato, il fumo nero del camino dei crematori.
Una favola amaris sima, che raggiunge l'obiettivo di raccontare con il
linguaggio della poesia l'orrore dei campi, e prima ancora delle leggi
razziali che anche nel nostro paese hanno discriminato, colpito, perseguitato
tanti ita liani sotto il fascismo, fino al giorno in cui a migliaia sono
stati strappati dalle loro case e deportati sui carri per i Lager.
Figlio di un internato militare, Benigni voleva raccontare
da anni - lo ha ricordato lui stesso - l'orrore dei Lager. L'ha fatto
ora, con il linguaggio e la poe tica che gli sono propri, avva lendosi
della consulenza di al cuni esponenti del Centro di documentazione ebraica
con temporanea di Milano che hanno avuto l'intelligenza e la sensibilità
di collaborare con lui intervenendo sulle scene, sui costumi, sull'intera
vicen da.
Qualcuno, anche tra di noi, ha per la verità storto il naso, ne
gando la liceità di un tentativo di questo genere: non è
corretto - ha detto - cercare di far ridere il pubblico mo strando i Lager;
non si può ir ridere il dramma di tanti mi lioni di caduti dei
campi. Altri hanno soprattutto apprezzatoto - e noi siamo tra questi -
l'intento del film di servire proprio alla causa della memoria dello sterminio
e dell'infamia delle leggi razziali fasciste.
Certo, "La vita è bella" non è un documentario
costruito su rigorose basi scientifiche. È piuttosto una sorta
di favola moderna, che va presa per quella che è, senza fermarsi
a controllare la veri dicità storica di ogni foto gramma. Poteva
un padre na scondere nel suo "block", nel campo, un figlio di pochi anni?
Perché la moglie del protago nista (impersonata da Nicoletta Braschi),
che non è ebrea, ha nel campo la divisa a righe e il numero ma
non il triangolo colorato? Non sa Benigni che oltre agli ebrei c'erano
milioni di altri depor tati che portavano sul petto triangoli di altri
colori?
La discussione continua. E questo giornale sarà
lieto di ospitare - oltre a quelli che pubblichiamo qui di seguito - i
commenti di chi i campi di Hitler li ha conosciuti dal vero, e non soltanto
al ci nema.
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"HO VISTO IL FILM, NON MI HA CONVINTO"
Si possono scrivere favole su Auschwitz?
di Daniel Vogelmann
Confesso che l'altra sera al "Politeama" di Arezzo ero molto emzionato,
come mi capita tutte le volte che sto per assistere a un film sull'Olocausto.
La domanda che viene sempre in mente in questi casi è se chi non
ha vissuto direttamente l'orrore dei campi di sterminio sia "autorizzato"
a parlarne, come se l'Olocausto fosse una sorta di "mistero sacro" che
soltanto chi lo ha vissuto in prima persona può tentare timidamente
di svelare. Sono note a tutti le polemiche nate dopo tentativi analoghi,
dalla Scelta di Sofia a Schindler's List: è sufficiente l'arte,
anche la più grande, per parlare dell'indicibile?
E confesso inoltre il mio imbarazzo nello scrivere a
caldo queste note di carattere assolutamente personale: criticando, come
mi appresto a fare, il film di Benigni, mi sembra di paral male di Garibaldi...
E poi chi osa farlo è proprio un ebreo, che dovrebbe invece essere
grato al geniale comico toscano per aver affrontato con simpatia questo
tragico argomento (anche sulla "doverosa" gratitudine degli ebrei si potrebbe
parlare a lungo...). Comunque, prima del film non ero certo prevenuto,
sia per gli apprezzamenti positivi che avevo già letto sia perché
ho sempre stimato Benigni (e, intendiamoci, lo stimo ancora, se non altro
per la buona intenzione di fare questo film).
Avendo avuto delle illustri e sbandierate collaborazioni,
mi immaginavo che dal punto di vista storico-documentario il film fosse
pressoché perfetto e soprattutto lo volesse essere. Mi sono invece
subito imbattuto in una strana superficialità appena si accenna
alle leggi razziali del 1938: dov'è quel terribile choc che tutti
gli ebrei italiani provarono del tutto inaspettatamente? Invece, Guido
ORefice, il protagonista del film, per niente toccato dalla tragedia (perché
fu una tragedia!), si sposa tranquillamente con una non ebrea e apre anche
la sua piccola cartolibreria.
Ma il peggio, come sappiamo, doveva ancora venire con
l'8 settembre e l'arrivo dei tedeschi. Quando tutti gli ebrei italiani
cercarono disperatamente un rifugio, Guido Orefice non sembra preoccuparsi,
e quindi viene preso in casa insieme al figlio Giosuè. La moglie
sceglie per amore di seguirli e tutti i tre salgono sul maledetto treno
che li porta in un campo di concentramento, anzi in un campo di sterminio
vero e proprio con tanto di camera a gas e forno crematorio. Sul viaggio
infernale nessuno accenno. Orefice scende in buono stato e pronto a scherzare
per non rattristare il figlio (lodevolissima intenzione, ma vi prego di
credermi: dopo un viaggio del genere - lo so da mio padre Schulim che
quel viaggio lo fece con la moglie Anna e la figlioletta Sissel - neanche
Dio avrebbe potuto scherzare...). E poi come non ricordare che le donne
con i bambini venivano subito avviate alle camere a gas, mentre gli uomini
idonei diventavano schiavi. Dov'è nel film l'"ex uomo" di Primo
Levi, "che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo
pane, che muore per un sì o per un no"? Guido Orefice, invece è
sempre piuttosto lucido e allegro, regala perfino il suo pane al figlio:
Benigni e il suo sceneggiatore non hanno mai letto nelle numerose testimonianze
che anche i padri e i figli si rubavano il pane pur di sopravvivere, che
i tedeschi, oltre a uccidere il corpo dei prigionieri, avevano loro ucciso
anche l'anima?
Certo, poi Guido Orefice si "riscatta" morendo per salvare
la moglie e il figlio, la guerra finisce con la vittoria (per chi ha potuto
vederla) e del dopo non si dice più nulla. Tranne che va bene così,
che la vita è bella, che in fondo viviamo nel migliore dei mondi
possibili, a parte qualche tragica parentesi, dove però con la
buona volontà, il senso dell'umorismo e una sana innocenza ce la
possiamo tutto sommato cavare...
Anche mio padre, che da Auschwitz tornò solo (perché evidentemente
non fu così bravo da inventare un gioco per la sua Sissel), diceva
(per me misteriosamente) che la vita è bella. Ma che strazio nella
sua voce, quando lo diceva... Valenti critici cinematografici diranno
che il film è una favola a fin di bene e che quindi la verosimiglianza
non è importante... Ma allora io mi domando, parafrasando una famosa
frase: "Si possono scrivere favole su Auschwitz?".
E infine un'ultima osservazione: migliaia di ragazzi,
che non sanno nulla dell'Olocausto, attratti dal Robertaccio nazionale,
andranno a vedere questo film. Quale sarà la loro impressione?
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"NON SI PUÒ RICOSTRUIRE IL LAGER"
Non andrò a vedere neppure questo film
di Teo Ducci
No, non andrò a vederlo il film "La vita è bella" del Roberto
Benigni nazionale. Non andrò a vederlo come mi sono rifiutato di
vedere tutti gli altri film nei quali registi di vario calibro hanno tentato
di far vedere che cosa era e come era un Konzentrations = Lager nazista.
Faccio già fatica a capire quello che mi è capitato, a ricordare
quello che il Lager era, come era, come l'ho vissuto. Mi vengono in mente
le parole di quel tenente inglese che, entrato per primo nel Kz Belsen
Berger, iniziò il suo rapporto ai superiori con queste parole "dovrei
descrivere l'indescrivibile". Figuriamoci, lui che aveva l'ecatombe lì
davanti ai suoi occhi, lui che aveva visto questo e altro, davanti a quello
spettacolo terrificante, non trovò le parole perché, quello
era veramente indescrivibile.
Non si tratta solo delle immagini (forse si tratta proprio
di quelle) cioè dei finti, volti emaciati, dei mille particolari
che sfuggono al più attento osservatore, ma che ti colpiscono immediatamente,
si tratta di ben altro. Dell'atmosfera, del peso dei silenzi, del fetore,
delle urla, della tensione nervosa, della paura, senza della fame. Si
tratta di quella perversa distruzione della nostra personalità
che non si può in alcun modo visualizzare.
E allora tutto è fasullo, tutto è artificiale. Il Lager
non è, non può essere, quello che veramente era come noi
superstiti l'abbiamo vissuto e che altri, con tutto il rispetto per la
loro buona volontà, cercano di ricostruire. Il Lager non può
essere ricostruito. Andrei più in là: non deve essere ricostruito.
Lasciatemi dire come i nostri vecchi: scherza con i fanti e lascia stare
i santi.
Io apprezzo l'interesse di tanti per la nostra vicenda
e il tentativo di renderla comprensibile. Premesso che comprensibile non
è, non sarà mai, temo che rievocarla sul grande schermo
provochi ancora una volta traumi terribili. Penso non solo ai superstiti,
penso anzitutto ai familiari. Che poi migliaia di spettatori vadano ad
emozionarsi al cinema, questo è un altro discorso. E mi chiedo
se questa interpretazione cinematografica, a prescindere dagli svarioni
che ognuno di noi avverte, serve veramente a far capire la spaventosa
dimensione del crimine commesso. Si dirà: è gente che non
vedrebbe documentari, almeno così si fa un'idea di quello che è
stato. Può essere. Ma, per me, è sempre un'idea distorta
che apre inutilmente nuove piaghe nei nostri già abbastanza tormentati
ricordi.
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QUELLE CRITICHE SONO AUTIEDUCATIVE
di Bruno Maida
E' difficile contare le prese di posizione, favorevoli
o contrarie, nei confronti del film "La vita è bella"
di Roberto Benigni. L'argomento, il modo in cui viene trattato, le caratteristiche
artistiche (ma anche le prese di posizione politiche) dell'autore, la
collaborazione del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano,
sono tutti elementi che non potevano che determinare un dibattito a volte
utile, a volte in verità sconcertante.
Laddove si critica il valore artistico dell'opera non
posso che fare un passo indietro, ascoltando chi se ne intende, e affermando
solo il diritto al mio gusto personale. Tuttavia non posso nascondere
di aver trovato estremamente convincente il film di Benigni sia nella
capacità di tratteggiare (magari con alcune cadute: il grottesco
eccessivo con cui disegna il re e la regina; il finale troppo consolatorio)
quella fase drammatica della storia italiana sia di coniugare felicemente
allegria e dramma, con tratti chapliniani a cui è difficile sfuggire,
valga per tutti la traduzione del discorso della SS. Ma il film mi sembra
convincente anche nel ritmo, nel plot narrativo, nei personaggi sufficientemente
approfonditi, nella recitazione sentita e attenta di Benigni che qui si
dimostra davvero un grande interprete. Si pensi alle sfumature che pian
piano nel film mutano il volto di Benigni, immagine di un animo sempre
più svuotato e alla fine puro involucro divertente ed allegro al
servizio delle possibilità di vita del figlio.
Laddove, al contrario, interviene l'onda emotiva di chi
ha vissuto il Lager o di chi (come Daniel Vogelmann) ne ha conosciuto
le drammatiche prospettive di lungo periodo, non posso che condividere
e cercare di comprendere la difficoltà con la quale ci si approccia
ad ogni opera che tenti di raccontare una dimensione così complessa
e apparentemente indicibile.
Rimangono tuttavia almeno due piani che necessitano di
una ulteriore riflessione e che soprattutto ritengo siano utili per affrontare
un dibattito pubblico - ma anche molto sotterraneo - in cui si scontrano
idee e sensibilità, troppo spesso quanto inevitabilmente dettate
dall'impatto emotivo.
In primo luogo, credo che posizioni come quella di Orengo
su "La Stampa" o di Teo Ducci su questo giornale - diverse nell'argomentazione
ma unite nella sostanza: "il film di Benigni non lo vado a vedere"
- non siano condivisibili e si caratterizzino addirittura per un elemento
antieducativo. Non sono a mio avviso condivisibili perché - al
di là dell'inalienabile diritto a fare ciò che si vuole
- fondate sul pregiudizio di chi, come scrive Ducci, si è "rifiutato
di vedere tutti gli altri film nei quali registi di vario calibro hanno
tentato di far vedere che cosa era e come era un KZ nazista". Di
che cosa si discute allora? Del fatto che il Lager non può né
deve essere ricostruito perché un'immagine non è in grado
di restituire l'immensa complessità di parole come fame, freddo,
paura. E' vero ma non è in grado di farlo neanche una ricostruzione
storica e, dirò di più, neanche la più precisa, attenta
ed emozionante testimonianza. Ecco dunque che lentamente - e qui il discorso
diventa antieducativo - il Lager diventa indicibile, non raccontabile
così che lentamente esce dalla storia, proprio da quella storia
che uomini come Vogelmann o Ducci hanno fatto tanto per mantenere viva
e presente.
In secondo luogo, mi sembra che le critiche "storiche"
al film siano davvero poco fondate. A partire dal fatto - che mi sembra
inequivocabile - che ad un'opera d'arte non si può chiedere una
semplice trasposizione della realtà (ma non era il tono eccessivamente
documentaristico una delle critiche a "Schindler's List?") e
che forse ad un'opera d'arte ognuno ha diritto di chiedere (e di leggervi)
ciò che vuole, appare secondo me discutibile sostenere - come ha
fatto su questo giornale Daniel Vogelmann - che nel film si sarebbe dovuto
vedere "quel terribile choc che tutti gli ebrei italiani provarono
del tutto inaspettatamente".
Mi pare, al contrario, che uno dei meriti maggiori del
film - proprio nella sua prima parte - stia appunto nel cogliere con senso
storico le molte sfumature di consapevolezza e di atteggiamenti che vi
furono nel mondo ebraico (e in quello italiano nel complesso) di fronte
alle leggi razziali. Allo stesso modo ci mostra come per molte persone
la scoperta della propria identità ebraica nacque attraverso l'esperienza
di discriminazione e soprattutto di persecuzione. E ancora: ci aiuta a
capire come di fronte alle leggi razziali uno degli atteggiamenti diffusi
nella comunità ebraica fu proprio quello - alimentato e sperimentato
in tanti secoli di persecuzione - di aspettare che "passasse la nottata".
Infine ci mostra ancora una volta che la parola Olocausto non bisogna
usarla: fu distruzione, fu Shoah, e proprio per questo "la vita è
bella": non perché nel Lager ci sia un'umanità da salvare
(lo dimostra il tedesco che vuole conoscere solo la risoluzione del rebus);
non perché si debbano trovare elementi necessariamente consolatori;
non perché si riproduce il mito "italiani brava gente"
(chi organizza la lezione sulla razza ariana? chi dipinge il cavallo?
chi è indifferente alla sorte degli ebrei?).
La vita è bella semplicemente perché molti
dei sopravvissuti dei Lager hanno avuto - in modo assai meno poetico ed
iperbolico, in forme incomprensibili ed impercettibili, in gesti improvvisi
ed irripetibili - un fratello, una madre ma soprattutto un improvvisato
amico che gli ha ricordato la vita con un gesto di solidarietà
o solo con un racconto del passato. Spesso è su questo che hanno
costruito la possibilità di un futuro.
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GRAN PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA DI CANNES AL FILM
"LA VITA È BELLA" DI BENIGNI
Presentato in concorso al Festival di Cannes, il film
di Roberto Benigni "La vita è bella" è tornato a casa con
il Gran Premio Speciale della Giuria, e il regista-attore toscano è
stato salutato con un tripudio di applausi e con unanimi commenti di soddisfazione
della critica internazionale.
Il film è al centro di accese discussioni fin
da quando è apparso sugli schermi: Benigni ha inventato una favola
ambientata in larga parte in un campo di concentramento nazista, realizzando
una pellicola a tratti anche molto emozionante.
Gli ex deportati nei Lager nazisti si sono divisi nel
giudizio, come è ovviamente naturale in un caso che tocca corde
tanto sensibili.
Quale che sia il giudizio di ciascuno sul film, pensiamo
che faccia comunque che l'opera di Benigni abbia ricevuto un così
alto riconoscimento internazionale, richiamando alla memoria, in tempi
di così facili rimozioni, il dramma vissuto dai popoli europei
oltre mezzo secolo fa.
In merito alla pellicola registriamo dopo quelli pubblicati
negli scorsi due numeri del nostro giornale, i pareri di due ex deportati:
Gilberto Salmoni di Genova e Elisa Missaglia di Pescara. Sono due pareri
diametralmente opposti: il film premiato a Cannes suscita davvero emozioni
profonde.
Con questi commenti possiamo considerare chiuso l'argomento.
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BENIGNI NON SCHERZARE COL DOLORE
di Elisa Missaglia - Matricola Auschwitz 76147
Sono una reduce dei campi di sterminio. Non ho visto
e non vedrò il film di Benigni, invito però l'illustre Benigni
a non scherzare su quello che è stato. Se lui come me e tanti altri
avesse vissuto mesi e anni nell'inferno del Lager non avrebbe voglia di
far ridere. Già sono in tanti a non voler credere all'atrocità
dei Lager, ci vuole pure di metterci in ridicolo?
Cordiali saluti
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HO APPREZZATO LA SUA SENSIBILITÀ E CARICA UMANA
di Gilberto Salmoni - Genova - ex deportato a
Buchenwald
In merito al film di Roberto Benigni, realizzato con
l'assidua consulenza, tra gli altri, dell'amico Nedo Fiano anche lui liberato
a Buchenwald dove era giunto da Auschwitz, desidero esprimere la mia opinione
fortemente positiva che si allinea a quella espressa da altri e, in particolare,
da Anna Maria Bruzzone.
Ritengo fortemente positiva la ridicolizzazione del fascismo
e della teoria della razza che viene confutata magistralmente con la mimica
in modo certamente più efficace e comprensibile di documentate
obiezioni di natura scientifica. La seconda parte del film era sicuramente
più critica. Lì si andava nella favola che fatalmente allontanava
dalla realtà. E tuttavia la sofferenza e le atrocità non
venivano dimenticate, con il massimo rispetto verso quanti sono morti
nei campi o sono sopravvissuti dopo infinite sofferenze.
Non essendo pienamente convinto della seconda parte alla
prima visione, ho voluto rivedere il film e mi sono confermato in una
opinione largamente positiva e nell'apprezzamento non solo della fantasia
di Benigni ma anche della sua fortissima sensibilità e carica umana.
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LA VITA E’ BELLA
di Pietro Farro
"Solo il riso - irrisione sistematica, falsetto autoderisorio,
smorfia convulsa - garantisce che il discorso è all'altezza della
terribilità del vivere e segna una mutazione rivoluzionaria", così
scrive Italo Calvino in Una pietra sopra.
La serietà del comico, l'inscindibile complementarietà
di comicità e tragedia sono punti cardine di ogni buona teoria
del comico e anche della poetica di ogni grande umorista: da Chaplin a
Woody Allen, da Pirandello a Fo, da Flaiano a Benni, e molti altri se
ne potrebbero citare. Da oggi a questo elenco bisogna aggiungere anche
il nome di Roberto Benigni. Il suo ultimo film La
vita è bella - un film che ha un'anima, come ha scritto Irene
Bignardi - è infatti una perfetta fusione di tragedia e commedia.
Una splendida dimostrazione di come l'umorismo, al suo grado più
alto, possa permettersi di affrontare qualunque argomento. Di come si
possa far ridere raccontando una delle pagine più brutte della
storia dell'umanità, senza per questo essere irridenti; anzi preservando
intatta la carica drammatica degli eventi narrati. Infine anche un esempio
di come si possano mettere in scena le storie più dolorose senza
far ricorso ai luoghi triti della retorica.
La prima metà del film è in realtà una deliziosa
ed esilarante commedia, poi, quando nella vita dei protagonisti irrompe
la tragedia, il tono cambia fatalmente. Potrebbe sembrare un difetto questa
netta cesura tra la prima e la seconda parte, se non fosse che anche nella
vita le cose spesso vanno proprio così, col dolore che, inatteso,
arriva a rovinare le esistenze fino a quel momento più felici.
Ma per quanto dolore possa esservi, la vita vale sempre la pena di viverla
- possibilmente ridendo - fino in fondo. Perché la vita è
irriducibilmente bella. Anzi unica.
Una menzione speciale merita Vincenzo Cerami,
da anni fido co-autore di Benigni e certamente uno degli scrittori più
completi - per la sua capacità di giocare sui molteplici tavoli
della letteratura del cinema e del teatro - presenti su piazza.
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Film Review
MA LA VITA È DAVVERO BELLA:
LO SPETTACOLO DELL’OLOCAUSTO, OVVERO DELLA NECESSITÀ
DEL KITSCH
di Erminia Passannanti, UCL 2000 © 2001
Jewish prisoners in 1938. Source: Dachau Memorial Muse
La questione che intendo riaffrontare è se sia
legittimo rendere l’Olocausto oggetto di umorismo. Se si, qual è
il senso della proposta in chiave tragicomica del tema dell’Olocausto
nel film La vita è bella anche alla luce dell’attuale crisi
tra Israele e Palestina e la recrudescenza di antisemitismo a cui stiamo
assistendo in Europa e nel mondo.
Prima di addentrarmi nelle ragioni della mia polemica
nei confronti del film di Benigni, va ricordato in quale tradizione si
collochi il momento storico di quest’opera. Dalla fine degli anni Quaranta
e all’interno del progetto neorealista, la persecuzione degli ebrei nell’Italia
fascista, la deportazione ai campi di sterminio nazisti di Dachau e Auschwitz
e gli esiti devastanti della seconda guerra mondiale sulla società
italiana furono temi centrali di note opere letterarie e filmiche. Nel
decennio successivo alla Liberazione, i protagonisti della scena letteraria
neo-realista trovavano nei presupposti antifascisti di Pavese e Vittorini
il motore di un intervento artistico affiancabile all’azione politica
e riconoscevano, dunque, in un socialismo umanitario e antidogmatico la
comune base ideologica di una critica radicale delle istituzioni del potere
responsabili del tracollo della cultura umanistica.
La luna e i falò, di Cesare Pavese, L’Agnese
va a morire, (1949), di Renata Vigano, Una storia italiana,
(trilogia comprendente il Metello), di Vasco Pratolini, Cristo
si è fermato a Eboli, di Carlo Levi (1945), Se questo è
un uomo, di Primo Levi , La storia , di Elsa Morante, La
Ciociara, di Alberto Moravia, I 23 giorni della città di
Alba, di Beppe Fenoglio (1952), e Si fa presto a dir fame,
di Piero Califfi (1955), affrontavano, dunque, l’odissea bellica sulla
base di esperienze soggettive che assumevano un carattere universale quale
incubo collettivo. Lo stesso avveniva in cinematografia, con i film di
Pier Paolo Pasolini, De Sica, Visconti, e Rossellini.
Tuttavia, alla fine degli anni Cinquanta, a partire dalla
svolta provocata dalla pubblicazione nel 1956 del Metello, la prospettiva
storico-sociologica della produzione neorealista doveva scontrarsi con
le proposte dissidenti e avanguardistiche che sollevando il problema dell’autonomia
dell’arte e l’esigenza di un’innovazione formale, esacerbarono le polemiche
sorte intorno al Metello di Pratolini, pubblicato nello stesso
anno di Ragazzi di vita(1955) L’effetto della tensione irrisolta
tra le istanze dei nuovi linguaggi emergenti all’interno del dibattito
neo-realista ne determinò la crisi. Allo stesso tempo, sullo sfondo
della guerra fredda, e nel frenetico clima delle alleanze di partito,
il mandato dei mass media di formare una nuova coscienza nazionale, democratica
e antifascista sembrava perdere forza e compattezza. Un primo attacco
agli stilemi del neorealismo venne da Paolini, che mise in luce il problema
dell’evoluzione artistica delle forme e dei linguaggi nell’ambito di una
stretta aderenza a una poetica debitrice a un’ideologia. Allo stesso modo,
Calvino, rivalutando le istanze delle avanguardie storiche surrealista
e simbolista, mostrava l’urgenza di un impegno individuale dell’artista
verso il rinnovamento stilistico del romanzo.
Jurgen Hbermas, nei suoi scritti politici sulla storia
moderna della Repubblica Federale tedesca poneva l’accento sull’ origine
culturale degli orrori del nazismo e sull’urgenza di una rottura con i
valori della tradizione e dell’identità nazionale che resero possibile
l’aberrante fenomeno, ovvero sulla responsabilità individuale e
collettiva dei grandi errori storici. Rifacendosi al Lukacs di La distruzione
della ragione (1954), e ripercorrendo la filosofia irrazionalista
che da Schelling giunge fino a Hitler, Habermas mostra come a una valutazione
retrospettiva, la storia tedesca sia essenzialmente una storia di complicità
collettiva con l’ideologia di Hitler. La presa di coscienza da parte di
un popolo che lo rende capace di opporre resistenza a tali dinamiche segue,
secondo Habermas, lo stesso percorso d’apprendimento collettivo, attraverso
i momenti di autoriflessione forniti non solo dalle festività nazionali
quali l’8 maggio, che, in Germania, celebra la fine della guerra e la
Liberazione da un regime in cui il popolo si era tuttavia così
bene identificato, ma dal cambiamento di mentalità ricavabile dalla
critica ai valori degenerati all’interno della civiltà europea
che con la persecuzione nazista negava ogni principio razionale. Habermas
ribadisce così la centralità della cultura come medium per
la crescita di una civiltà che trascenda i confini nazionali e
sia capace di riflettersi criticamente. Quale lezione abbiamo appreso
dall’Olocausto e in che misura siamo in grado di trasmettere e tradurre
questa memoria storica? Nel 1986, Primo Levi, ne I sommersi e i salvati,
sottolineava la presenza ad Aschwitz di una "zona grigia" di
esseri costretti alla collaborazione con la macchina infernale nazista.
Egli forniva un’analisi sottile e veritiera dei rapporti tra oppressi
ed oppressori, vittime e carnefici. Per Levi, solo una retorica schematica
e superficiale può sostenere che lo spazio tra gli uni e gli altri
sia vuoto, come appare nel film di Benigni creando quella che per Levi
è la falsa dicotomia tra il bene e il male.
Negli ultimi dieci anni diversi registi cinematografici
hanno voluto commemorare la tragedia umana dell’Olocausto. Già
alla fine degli anni Settanta, Pasolini aveva proposto con il film Salò
o le 120 giornate di Sodomia, una rilettura espressionista degli orrori
nazisti, di cui indicava le devianze sado-maso nella Repubblica di Salò,
lo stato fascista "pupazzo" messo in piedi all’indomani della
resa italiana agli Alleati. Nell’ottobre 1976, la prima del film di Pasolini
suscitò enorme scandalo e fu sottoposto a immediata censura. Tuttavia,
al di là della ricostruzione orgiastica degli ‘apparati scenici’
della Repubblica di Salò, Pasolini rappresentava con radicale pessimismo
espressionista la fine della prospettiva storica e il deperimento delle
capacità catartiche della tragedia. Prosciolto il veto della censura,
non cessarono le polemiche intorno al film che disattendeva ogni aspettativa
consolatoria con il potere sovversivo delle sue figurazioni sulle comode
convenzioni degli spettatori.
The Shindler’s List del regista ebreo-americano
Spielberg, e La vita è bella, di Benigni restituiscono il
genocidio alla sfera del narrato. Il problema che si poneva a entrambi
era di riuscire a presentare questi contenuti a un’audience ormai
lontana da quelle circostanze storiche (la larga fascia degli spettatori
è oggi ampiamente rappresentata da individui di una generazione
che ha conosciuto il nazismo solo attraverso la documentaristica storica).
Alla luce di questi ostacoli generazionali e delle richieste di mercato,
se Spielberg non ha rinunciato alle comodità di Holliwood, le più
modeste risorse di Benigni gli hanno non di meno consentito di spettacolarizzare
l’Olocausto, ricorrendo addirittura agli stilemi propri della commedia.
Bisogna, nondimeno, riflettere se questa progressiva distanza autorizzi
l’ingresso dell’evento storico nell’orizzonte di appiattimento etico-morale
proprio dell’arte postmoderna.
La distanza di per sè non è necessariamente
un dato controproducente. Nel noto saggio "L’opera d’arte nell’era
della riproduzione meccanica", Benjamin spiegava come la dissoluzione
dell’aura quale effetto dell’applicazione della tecnologia al prodotto
artistico, nella cultura di massa, possa assumere una valenza positiva,
offrendolo allo spettatore il distacco necessario a una revisione critica
del messaggio. Nell’ottica di Benjamin, la perdita della dimensione mitica
dell’opera d’arte privilegia il momento comunicativo tra il prodotto artistico
e il pubblico fruitore. Un’eccezione è costituita dal cinema d’arte
di registi quali Fellini, Bergman Truffaut o Visconti, anche quando abbiano
usufruito delle mega produzioni di Hollywood, e per il cinema d’ avanguardia
che con la loro forte componente meta-filmica favoriscono l’ esplorazione
delle possibilità formali del medium comunicativo anche in ragione
di una data teoria o progetto estetico. In questo genere di produzione
cinematografica, la storia, dice Benjamin, è in sé un mero
pretesto subordinato al mantenimento all’aura di autosufficienza e universalità
che lo strumento tecnologico della produzione filmica vorrebbe dissolta.
Fredric Jameson, tra i più autorevoli teorici
del cinema, ebbe ad esprimere il suo scetticismo rispetto all’ottimismo
di Benjamin, mettendo in evidenza la componente voyeristica e connivente
dell’essere spettatore. Secondo Jameson, nell’esplorazione dei nuovi linguaggi,
i colossal del cinema d’autore hanno tendenzialmente perseguito un’intensità
stilistica autoreferenziale che è a tutto svantaggio della rilevanza
e attendibilità storica. Il consolidarsi sul mercato cinematografico
di tali stili - nota Jameson - come espressioni di un discorso privato
contribuisce a ridurre ulteriormente il contatto del prodotto artistico
con le strutture sociali, in virtù della supposta presenza legislativa
dell’autore che accresce l’alienazione del pubblico dalla storia narrata.
Lo spettatore è indotto a partecipare da una distanza che, mentre
sembra agevolare una libertà critico- interpretativa, più
spesso lo sottomette alla visione imposta dal regista.
Al contrario, nella cinematografia postmoderna, fondata
essenzialmente su una appiattimento delle idee a favore della molteplicità
degli stili e della comicità del pastiche, sottraendo importanza
all’autore si pone l’enfasi sul momento recettivo. Ma di cosa hanno bisogno
i fruitori per esercitare tale autonomia interpretativa? E che valore
hanno le interpretazioni individuali rispetto a un soggetto quale l’Olocausto
se la storia è legittimata ad essere mera narrativa? Il segno distintivo
di film quali La vita è bella è una nostalgia retrò,
che ripropone non tanto il contesto storico, ma piuttosto la cultura di
una data epoca. Ne consegue il ricorso al pastiche come ripensamento
ironico della storia. Ovvero come tendenza a semplificare la storia. Come
notava Levi ne I sommersi e i salvati, se questo desiderio di semplificazione
è giustificato, la semplificazione in sè non sempre lo è.
Il falso taglio netto operato dal film di Benigni ne è la prova,
con il suo sorvolare le essenziali ambiguità esistenti all’interno
del Lager. Inoltre, con la sua riproposta del varietà, la sua attenzione
all’arte pittorica e architettonica, alla musica jazz americana e alla
moda liberty, in voga durante il fascismo, la prima parte del film di
Benigni, rievocando il periodo che va dal 1938 al 1942, mette
in dubbio la validità della cultura ufficiale trasmessa dalle istituzioni
scolastiche fasciste, che viene ridicolizzata nella scena della visita
del protagonista Guido alla scuola elementare in veste di falso ispettore
del Ministero al fine di corteggiare la sua futura moglie, la maestrina
Dora. La favola di questa commedia sentimentale ricorda, a pensarci,
i musicals americani di Fred Astaire e Ginger Roger. La repentina
messa in scena delle tematiche legate alla persecuzione degli ebrei nell’Italia
filonazista segna l’inizio della seconda parte.
Il piccolo Giosuè, nato da Dora e Guido,
ha cinque anni quando legge sulla saracinesca della minuscola cartolibreria
di suo padre un graffito antisemita. L’Italia è in guerra. Nel
giro di pochi metri di pellicola, padre e figlio vengono fatti salire
su un treno stipato di uomini simile a un carro bestiame e deportati in
Germania dove vengono rinchiusi in un campo di concentramento. Il piccolo
Giosuè ha sentore del pericolo imminente, ma Guido, desiderando
evitargli un trauma, dà inizio a una messinscena allo scopo di
celare l’autentico fine di quel viaggio. Sotto gli occhi ignari di Giosuè
ha luogo l’Olocausto che Guido si ostina a presentare al figlio come un
grande gioco collettivo, alla fine del quale, se vittoriosi, si vincerà
"un carro armato vero". Va sottolineato che anche le SS ricorrevano
al pretesto ludico e alla simulazione (si ricordino le docce comuni che
mascheravano le camere a gas) per nascondere ai prigionieri le loro vere
intenzioni.
In La vita è bella, tuttavia, la
capacità di dissimulare la realtà è presentata come
un’attività creativa indispensabile alla sopravvivenza. L’elemento
bizzarro di questa dissimulazione non sfugge allo spettatore
che è indotto a ridere alla battuta: "Ci bruciano nel forno?
Il forno a legna l’avevo sentito ma il forno a uomo, mai, eh! Oh, è
passata la legna, passami l’avvocato! [...] Va a finire che un giorno
ti dicono che con noi ci fanno i paralumi, i fermacarte... e te ci credi
veramente!) Dobbiamo chiederci quale valore abbia effettivamente per noi
questo riso a cui si cede? Se è valida in questo contesto la teoria
del riso di Backtin contro le istituzioni del potere. Ne La vita è
bella, la realtà traspare momentaneamente solo come emblema,
feticcio, allorquando, in lontananza il Benigni-regista fa intravedere
al pubblico un cumulo dei corpi oltre la cortina di nebbia
in cui il Benigni-attore ha smarrito la strada.
Per Gianni Celati, le associazioni di elementi incompatibili,
tipiche della comicità, annientano il dramma ed eliminano la differenza
tra ordini e valori. La tradizione del riso plebea e dissacratoria si
prende giustamente beffe del sacro: essa è utile alla destituzione
dell’autorità costituita e ha, dunque, un potere sovversivo. Ma
nel parodiare l’Olocausto, con il pretesto di restituire l’evento al pubblico
e alla sua capacità interpretativa tramite questa patina di accessibilità,
Benigni ha, di fatto, sostanzialmente strappato Auschwitz alla Storia.
Nel pamphlet Mass Civilisation and Minority Culture,
pubblicato negli anni Trenta, il suo autore, Leavis nota come
la valutazione di una data epoca sia affidata a una ridotta minoranza
che decide di porsi come coscienza di un popolo attraverso l’interpretazione
storica, letteraria o artistica. Ma cosa accade quando il prodotto artistico,
svuotato dei vecchi presupposti ideologici e programmatici, come si verifica
attualmente è affidato, nella sua sinistra estemporaneità,
alla cultura di massa e condizionato alle esigenze di mercato secondo
il dettato "Date al pubblico ciò che vuole" attraverso
favole d’intrattenimento che hanno il solo scopo di garantirsi il consenso
acritico dell’audience. Ma ciò che il pubblico chiede è
davvero la trasposizione del soggetto filmico in uno spazio ricreativo
che garantisca l’illusione di una dimensione reale guadagnata grazie a
un’emotività a basso costo?
Una chiara indicazione è data nel film
di Benigni dal primato dell’immaginazione nell’educazione dei bambini,
un’immaginazione che si traduce in ‘menzogna’. Il pubblico di è
commosso dinanzi a questo ‘inganno’ a fin di been, espressione dell’amore
faterno. Ma siamo davvero d’accordo con questa pedagogia? E’ morale che
si eviti alle nuove generazioni il trauma emotivo che in un film come
Salò di Pasolini è indotta dallo spettacolo dell’orrore?
Ne la Vita è bella, l’inganno comico di Guido è motivato
dalla sua preoccupazione paterna di presentare al figlio un ipotetico
futuro che potrebbe ancora essere bella. Ma questa comprensibile
preoccupazione genitoriale è sufficiente a giustificare l’umorismo
nero che grava sulla seconda parte del film? Come accettare la resa comica
di una tragedia umana come quella consumatasi a Auschwitz senza percepire
un ambiguo livello di complicità con il sadismo beffeggiante del
persecutore? Ricorrendo alla comicità del teatro cabarettistico,
e riprendendo la critica ai rapporti gerarchici vigenti all’interno delle
istituzioni della cinematografica di Chaplin e Buster Keaton, Benigni,
tuttavia, e malgrado l’Oscar, non è riuscito ad elaborare un’uguale
tale raffinatezza metaforica, sconfinando in più di un’occasione
scenica nel cattivo gusto e nel gratuito.
L’irrealtà trasognante della serenata di Guido
a Dora attraverso gli altoparlanti del campo di sterminio è una
rievocazione degli idilli dei musicals holliwodiani. Tale ripensamento
ironico della storia, facendo a meno delle coordinate del tragico, opera
dunque una riattivazione estetico-nostalgica dei dettagli culturali coevi
al periodo trattato, e pone in secondo il fatto storico. Negli ultimi
dieci minuti del film, Guido, trascinato in uno squallido angolo dal soldato
nazista che di lì a poco lo fucilerà brutalmente, consapevole
di essere sotto lo sguardo del figlio, nascosto in una cassetta metallica,
recita per l’ultima volta la parte del burattino, quindi scompare dal
suo campo visivo. Il senso meta-filmico di questa scena è elevato
– lo spiraglio da cui Giosuè osserva il padre trascinato a morte
è simbolico dello schermo cinematografico dinanzi al quale, anonimo,
inosservato, nascosto nel buio della sala, lo spettatore è chiamato
a confondere la realtà con la fiction.
Kitsch è, in chiusura, l’entrata in scena del
grande carrarmato americano, che il bambino, ancora al riparo nel suo
nascondiglio e sempre immerso nello stupore indotto dal padre, ammira,
sgranando gli occhi, come dinanzi a un enorme giocattolo bellico. Il finale
nello stile di "Arrivano i nostri!" ricorda i film della guerra
tra gli indiani Apache e l’esercito del Generale Custer. Da un punto di
vista politico, tale finale non fa che confermare il mito dell’eroismo
americano e il ruolo risolutore degli Stati Uniti nelle tragiche vicende
della vecchia Europa, proponendo un’immagine edificante dell’America da
confezionata per le nuove generazioni.
Ma a chi è utile, ci si deve chiedere soprattutto
oggi, l’ignoranza dei fatti in cui Guido ha tenuto il suo bambino? Alla
famiglia? Alla nazione? All’individuo?
Il filosofo Cioran ha notato come l’eclettismo nasca
là dove l’energia creativa si sia esaurita, dove le possibilità
si siano prosciugate e l’artista non abbia altra strada che il ricorso
all’uso parodistico di tutto il materiale accumulato e selezionato in
base a giudizi di valore e eticità del tutto sommari.
Kandiski ebbe a dire: "Lascio questa città
se solo sento uno scherzo sull’Olocausto." Oscillando tra tragedia
e commedia, cultura popolare e cultura elitaria, realtà e favola,
l’ eclettismo di Benigni appare, dunque, una fragile sintesi di contenuti
e forme che, non riuscendo a destituire il tragico con un’azione sovversiva
pari al Salò di Pasolini, ricorre, di necessità,
al kitsch non possedendo in sé un’alternativa autentica.
torna in alto
LA MATURITA' DEL COMICO
di Giovanni Romani
Roberto Benigni è diventato un
ometto. Con un coraggio davvero dissonante in quest’epoca vile di fuochi
d’artificio di battute e di comicità "sans souci", Benigni a sorpresa
smette i panni dell’eterno Gian Burrasca e confeziona un film che lascerà
di stucco i fanatici del "corpo sciolto".
La vita è bella non è un film perfetto,
ma è un film vero e commosso, prima che commovente. Viene da lontano,
dalla grande lezione di Chaplin per il quale la risata doveva scaturire
da storie cupe e drammatiche (Il grande dittatore, Il monello,
Monsieur Verdoux), con una differenza: Benigni non è un
regista di talento. Il punto debole de La vita è bella è
proprio una certa piattezza stilistica, un’avvertibile mancanza di disinvoltura
con la macchina da presa che si traduce in una regia lievemente anonima,
senza, peraltro, compromettere la notevole resa drammatica dell’insieme.
D’altronde, è del pari palpabile la sincera passione
del regista per la storia, scritta a quattro mani con il sempre più
bravo Vincenzo Cerami, un amore assoluto per il soggetto che fa passare
in secondo piano eventuali carenze tecnico-stilistiche.
La vita è bella non è certo il tipico
film natalizio ed è straordinario che, schiacciato tra Fuochi
d’artificio ed A spasso nel tempo 2, il "comico" campione d’incassi
con le sue poetiche sciocchezze osi aggredire il proprio pubblico con
una storia sui campi di sterminio.
E lo sterminio è vero in tutto il suo orrore insensato,
non è parodia, e i nazisti non parlano come le "sturmtruppen",
ma sono dei reali mostri assassini, e gli uomini diventano davvero saponi
e bottoni e la gente muore sul serio nella commedia di Benigni. E tutta
questa verità, rivelata ad un pubblico attonito, viene trasfigurata
in gioco agli occhi del piccolo Giosuè, l’unico a credere ad un
mondo di commedia ("…ci si ammazza dalle risate!") e ad uscire puro ed
intatto dall’inferno grazie alla forza della fantasia.
La bellezza del film di Benigni è tutta qua, nel
cortocircuito tra comicità e dramma, tra bugie e realtà,
tra gioco e morte, tra orrore e buonumore, e non è poco. Anche
strutturalmente la pellicola segue questa traccia, con una prima parte
più prettamente comica che offre il destro al protagonista di esibirsi
nelle sue gag elettriche, pur riuscendo, finalmente, a mantenersi entro
le righe del realismo interpretativo, benché clownesco, creando
un personaggio credibile come antieroe, buffo e patetico nel suo agnosticismo
politico e nell’illusione di una possibile felicità.
Guido è solo un ometto che cerca di sbarcare il
lunario, neanche si rende conto di essere ebreo, forse non sa neppure
che vuol dire, non è un antifascista politico, ma "fisico", non
è coraggioso, ma solo incosciente ed allegro ed ama pazzamente
sua moglie ed il suo bambino. Tutto qui. Ma quando, nella seconda parte,
il tono della commedia trascolora nelle cupe tinte dell'Olocausto, allora
Guido, sempre inconsciamente e suo malgrado, compie il più grande
atto d’eroismo concepibile: reagisce all’orrore con la fantasia, mente
alla morte e salva il proprio bimbo con l’ostinazione dell’immaginazione.
Ottimi gli interpreti, da un’intensa Nicoletta Braschi
ad un ritrovato Giustino Durano che, al di là di un’impressionante
somiglianza con Benigni, ricorda per timbro e brillante aplomb Walter
Matthau, fino al piccolo Giorgio Cantarini: bambino e non bambolotto nei
cui occhioni scuri le atrocità umane si rispecchiano senza lasciare
tracce nell’anima.
torna in alto
HO VISTO IL FILM LA VITA E' BELLA
di Renata Ottenfeld
Imola, 13 aprile 1999 – Giornata dedicata alla memoria
dell'olocausto.
Cari fratelli ebrei...
A proposito del film -La vita e' bella- di Roberto Benigni.
Ho visto solo da pochi giorni -La vita e' bella- dietro
suggerimento di un caro amico e l'invito di mio figlio Matteo che hanno
vinto alcune mie resistenze dovute ad una personale difficolta' a trovarmi,
almeno fino ad oggi, in sintonia con Benigni (piu' per certe apparizioni
televisive che non con i pochi film visti), ma anche al timore di poter
condividere le perplessita' di quanti, pur valutandolo un bel film, vi
hanno colto una rappresentazione non realistica della Shoah, forse addirittura
banalizzante, tale da prestarsi, soprattutto nelle giovani generazioni,
a diventare un evento sbiadito se non addirittura negato sull'onda di
un revisionismo storico purtroppo sempre presente. In fondo avevo il timore
di poterne soffrire.
La indicibilita' della specificita' ontologica della
Shoah, quale progetto di inondante sofferenza e totale annientamento,
che costituisce il filo conduttore delle memorie e dei racconti dei sopravvissuti,
ha sempre posto interrogativi e difficolta' a chi avesse avuto il desiderio
e il coraggio di rappresentarla.
Ma si puo' veramente rappresentare la Shoah? E soprattutto
e' giusto e lecito farlo?
Cio' vale non tanto per il testo scritto, soprattutto
quando e' opera di un sopravvissuto (tutti pensiamo e ricordiamo Primo
Levi) quanto per il testo cinematografico. In questo caso l'utilizzo,
oltre che delle parole, delle immagini visive, rende tutto piu' complesso.
Pur potendo contare sull'ampiezza comunicativa dello
spettro visivo, un autore e' in grado di elaborare la assoluta tragicita'
di eventi persecutori la cui immaginazione e' sempre stata superata dalla
realta'? E il suo libero atto di creazione artistica sapra' renderli in
modo tale da condurre il nostro cuore e la nostra mente a conoscere e
comprendere l'atroce verita' senza esserne talmente sopraffatti da non
trovare scampo dalla angoscia cosi' sprigionata?
Un film, se e come opera d'arte, non e' la trasposizione
ne' la reificazione della realta' fattuale, ma ne e' appunto una rappresentazione
che scaturisce dalla elaborazione del suo autore e dove il grado di aderenza
alla realta' puo', in virtu' della sua liberta', collocarsi all'interno
di un ventaglio molto ampio di possibilita'. Sta all'autore con i suoi
scopi, con la scelta dell'oggetto da rappresentare e del come farlo, ed
infine alla sua intelligenza morale decidere fino a che punto e' giusto
andare e dove e' opportuno fermarsi. Ma in questo caso il suo giudizio
morale e' un giudizio difficile poiche' le opzioni etiche possono anche
essere in conflitto fra loro. Il desiderio e la volonta' di non tradire
la storia e di farla conoscere spingono un autore a scelte di massima
aderenza visiva alla realta' fattuale, ma cosi' facendo egli puo' tradire
la propria coscienza e l'intima convinzione che una tragedia cosi' assoluta
non puo' essere rappresentata in tutta la sua sconvolgente discesa agli
inferi. Il pudore, il rispetto per la sofferenza e la memoria, il senso
della dignita' umana, la ricerca di un atto riparatore, dovrebbero fermare
ad un certo punto la sua mano.
Per questo molte persone, di cinema e non, ritengono
che per conoscere e far conoscere la realta', e questo e' un dovere per
tutti, il mezzo piu' idoneo e' la presentazione della pura nudita' documentaria.
si puo' anche andare oltre per raccontare, attraverso i documenti, i luoghi
e i volti, come ha fatto claude lanzmann con il suo film -Shoah-, film
per eccellenza sullo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento,
nel quale l'autore fa la scelta estrema di non rappresentare l'irrapresentabile
Diversi e di diverso spessore sono stati i modi con cui
il cinema ha affrontato la Shoah: la Shoah come sfondo, come universo
concentrazionario sul quale aprire una finestra e fissarne un segmento
o anche un solo frammento, come matrice di ulteriore orrore e sofferenza,
ed altri ancora.
Non desidero fare confronti ma mi preme tuttavia ricordare
la Schindler's list di Steven Spielberg. in questo film l'autore prende
potentemente di petto la realta', vi si immerge, si ferma davanti alle
camere a gas e ne esce incontaminato; pur rimanendo nel registro della
tragedia ha la volonta' e sente il dovere di porre al centro del suo racconto
la storia di un uomo e della sua azione riparatrice che salvera' piu'
di mille persone dallo sterminio. Oskar Schindler e' una persona realmente
esistita, il suo nome e' iscritto nel viale dei giusti tra le nazioni
a Yad Vashem di Gerusalemme e piu' volte, anche in virtu' di questo film,
e' stato citato e preso ad esempio nelle terribili circostanze della guerra
oggi in atto nei balcani. Il tema della salvezza lega questo film al film
di Benigni, pur nella loro sostanziale diversita'.
Ma vi e' un altro legame importante e significativo.
ne -La vita e' bella- Benigni cita, credo consapevolmente, la -Schindler's
list-. Penso che tutti coloro che hanno visto questo film ricordino la
bambina dal cappottino rosso (unico colore del film in bianco e nero):
nella piu' totale anonimia dell'opera di spersonalizzazione avvenuta nei
campi di sterminio e' il simbolo della unicita' e irripetibilita' di ogni
persona che per 6 milioni di volte nell'inferno della Shoah e' stata annientata.
Quale ondata di orrore e di pieta' in piu' ci coglie quando la riconosciamo
morta fra altri cadaveri.
Nel film di Benigni questa bambina e' diventata la bambina
con il gattino, che prima vediamo insieme ad altri deportati e che poi
sparisce alla vita e alla nostra vista, mentre il gattino si aggira miagolando
e frugando in mezzo ai vestiti dismessi e ammonticchiati davanti alle
camere a gas. L'aver scelto questa citazione, ed averla inserita nel racconto
del film, non all'interno del gioco, ci testimonia il suo rispetto e la
sua pieta'.
Ma come si avvicina Benigni alla Shoah? -La vita e' bella-
non e' un film sulla Shoah.
È uno splendido film, di grande intelligenza creativa,
e' un film altamente drammatico, ma con una sua commedia interna, e' un
film potente, di grande forza evocativa, nel quale il regista, consapevole
dell'intimo intreccio fra tragedia e commedia, attribuisce sapientemente
all'aspetto comico una possibilita' di comprensione dei fatti umani e
della tragedia proprio perche' si mette da un'angolazione diversa, fa
un passo indietro rispetto all'oggetto del suo raccontare e, avendo nelle
sue corde il riso e il sorriso, riesce ad attirare l'attenzione in modo
intenso sulla realta': Lo humour e il riso sono fra le risposte appropriate
alla realta', e questo ha una funzione rassicurante, perche' suggerisce
che la tragedia non ha ne' l'unica parola ne' quella finale.
La vita e' bella e' un film che narra di un grande amore
paterno, e' la storia di un padre, Guido, che salva la vita al proprio
figlio, Giosue', internato con lui in un campo di concentramento, inventando
una favola, trasformando per il bambino e ai suoi occhi, lo spietato ordinamento
concentrazionario in un gioco a premi che prevede concorrenti, prove da
superare, acquisizione di punti, eliminazione di concorrenti e, per il
fortunato che arrivera' primo nella corsa ai 1000 punti previsti, la vincita
di un carro armato.
Ma il film in se' stesso non e' ne' una favola ne' un
gioco. È il racconto di una tragedia che racchiude una preziosa
favola quale contrappunto all'assurdita' della tragedia stessa.
La geniale architettura dei diversi piani narrativi:
la favola e il gioco nella realta' del lager, la magistrale orchestrazione
dei diversi registri tragico e comico che accompagnano tutto il film,
fanno si' che lo svolgersi del dramma sia contrastato dalle potenti invenzioni
che caratterizzano il gioco e che sorprendono in modo crescente: tutto
cio' rende piu' credibile la favola che, ricordiamolo, non esisterebbe
senza il dramma che la sostiene.
C'e' in questo film un gioco di intrecci, rimandi, combinazioni
e, per l'urto emotivo dato dalla sorpresa, non finiamo di stupirci per
il susseguirsi dei fuochi d'artificio disseminati nei momenti cruciali
della storia e del gioco in essa racchiuso.
La frizzante e incalzante comicita' della prima parte,
tutta tesa a comunicarci la visione che Guido ha del mondo e della vita,
che egli piega ai suoi desideri con un abile e inesauribile succedersi
di artifizi, se da un lato anticipa la capacita' inventiva che Guido dimostrera'
di avere nel lager, dall'altro, nel suo essere punteggiata dai presagi
del dramma che sta per compiersi, si lega in armoniosa coerenza alla seconda
parte del film. Non vi sono fratture tra la prima e la seconda parte del
film, esse sono distinte ma non scisse.
Non c'e' mai uno scambio confusivo fra tragedia e commedia,
fra realta' e favola; vi e' piuttosto un diffondersi solidale dei diversi
piani e registri narrativi, ma la distinzione e' da qualsiasi sospetto
di non riconoscimento pieno della tragedia della Shoah. La crudele assurdita'
della situazione ci e' sempre presente anche se il film non presenta mai
alla nostra vista le atrocita' pur percepite.
È proprio nella consapevolezza dell'orrore persecutorio
del lager che Guido inventa la favola e il gioco come contenimento della
tragedia stessa, perche' il piccolo Giosue' possa prenderne le distanze,
non prenderla sul serio (certo, i dubbi ogni tanto lo attraversano) e
vivere una esperienza che costituira' per lui un sofferto ma sereno ricordo.
Momento a questo proposito cruciale e' la scena dell'ingresso
di Guido e Giosue' nella baracca che ha come unico arredo lugubri loculi
di legno. Confesso che all'inizio di questa scena sono stata presa da
un forte attacco di angoscia: la cupa asfissia della baracca aveva reso
affannoso il respiro e accelerato il battito del cuore; ero fisicamente
vicina a Giosue' immerso nell'indistinto gruppo dei compagni di sventura,
ma ben distinguibile in mezzo a loro, grazie a una sapiente organizzazione
percettiva figura-sfondo, e aspettavo con lui cosa sarebbe accaduto. Entrano
le guardie, grosse, urlanti e minacciose, per imporre il regolamento del
lager: Guido, con veloce determinazione, si offre di tradurre dal tedesco
ai compagni, ma soprattutto a Giosue'. Ed ecco che Guido, ribaltando la
situazione, improvvisa la traduzione che trasforma il regolamento
concentrazionario nelle regole del gioco a premi, dove il superamento
delle prove per la sopravvivenza reale si trasformano nelle prove della
gara ad ostacoli per vincere il premio finale. La mia ansia a questo punto
si e' placata e non sono stata piu' capace di togliere gli occhi di dosso
a Guido e a Giosue'.
È questa una scena di grande cinema, di forte
impatto emotivo; di fronte a Guido determinato, serio, ma anche spaventato,
e che inventa, c'e' Giosue' che risponde con un sorriso complice, pieno
di meraviglia e di stupore, grato nel momento in cui scopre che il padre
aveva ragione: si tratta proprio di un gioco! e questa fiducia nel padre
e' piu' potente di qualunque altra cosa che noi sappiamo accadere nel
lager, che non vediamo ma che pero' immaginiamo mentre Giosue' grazie
a suo padre non vede e neppure immagina. È il valore della favola
che affranca dalla natura persecutoria e annientatrice dei luoghi e dei
tempi in cui essi si trovano.
Questa fresca curiosita', questa serena disposizione,
non abbandona mai Giosue' fino alla fine della favola ma anche del film.
Guido muore, viene fucilato nel tentativo, fallito, di ricongiungersi
con la moglie; Giosue' esce dal nascondiglio nel campo ormai abbandonato
e ora deserto, e per nulla impaurito, ma in stuporosa attesa, vede avanzare
verso di lui il tanto desiderato carro armato che, premio reale all'interno
del gioco e della favola, e' al tempo stesso simbolo di vittoria e di
liberta' nella realta' della fine della guerra. E nell' abbiamo vinto!
gridato da Giosue' che ha ritrovato la mamma, si ricompongono solidalmente
i diversi piani narrativi: favola e realta' finiscono per coincidere.
Il caro amico che mi ha suggerito la visione del film
mi ha anche comunicato un suo pensiero: se tutti i cittadini tedeschi
si fossero appuntati al petto, fin dall'inizio, la stella gialla, forse
la Shoah non si sarebbe compiuta, cosi' come il coro dei grazie,
da Guido abilmente orchestrato, che mimetizza Giosue' tra i bambini tedeschi
invitati ad una merenda nel lager, e alla quale egli partecipa per un
equivoco, disorientando le guardie, gli salva la vita.
Pur nella distinzione dei timbri e dei toni di voce,
la geniale trovata di Guido ricompone nel coro e nella parola -grazie-
le differenze di lingua, razza e nazionalita'.
Cari fratelli ebrei, sia che lo siate per nascita, per
religione, per tradizione, cultura, sia perche' vi sentite tali, vi auguro
di vedere il film La vita e' bella per quello che veramente e'
e per cio' che spero io sia riuscita a esprimere e trasmettere con questo
mio scritto. il riconoscimento profondo della Shoah rimane intatto nel
film e anche dopo di esso. So bene che nella realta' pochi sono stati
i bambini scampati e sopravvissuti, e questo pensiero riaccende dolori
e fa bruciare ferite ancora aperte, ma spero che il bambino salvato dalla
favola sia per ognuno di noi simbolo di salvezza ma anche un invito alla
nostra intelligenza e alla nostra coscienza alla giustizia e al rispetto
del valore delle persone.
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Bellissimo
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Cristiano, 15 anni, Roma.
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(12 Settembre 2002)
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Per una volta Roberto Benigni mi ha emozionato
in una sua interpretazione. Di solito mi sembra solo uno sballato,
invece in questo film mi ha proprio colpito. Un film bellissimo,
una storia molto interessante ma la fine è veramente infinitamente
triste. geniale l'idea di far diventare il campo di concentramento
un bel gioco... Giosuè è veramente dolce e indifeso.
Veramente un capolavoro del cinema italiano. Non deve mancare nella
collezione di un appassionato. Sigh... povero Roberto! Che brutta
fine!
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...
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Dea, 15 anni, prov.roma.
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(10 Settembre 2002)
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Trovo che tutti quelli che ritengono questo film
"comico" abbiano catturato solo una misera parte del significato
che vi e' celato.Sotto questa allegria si nascondono le atrocita'del
nazismo che un padre ha cercato di tenere nascoste al figlio, fingendo
che tutto fosse un bellissimo gioco a punti, dove chi vince riceve
un carro armato x premio...Sta allo spettatore riflettere. Per fare
un film sull'Olocausto non e' indispensabile spiattellare qua e
la' immagini di deportati x far commuovere...
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mari, 18 anni, roma.
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(8 Settembre 2002)
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Immenso... non saprei cos'altro dire.
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Che difficolta'
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Francesco, 27 anni, Roma.
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(2 Settembre 2002)
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Se si volesse parlare di come riesce a unire tragico
e comico, di come parlando di una cosa aberrante in modo leggero,
fa restare incollato lo spettatore allo schermo. molte persone non
guarderebbero mai un documentario su di un campo di concentramento,
molte persone pensano che sia più giusto dimenticare eliminando
il passato. la cosa stupenda che ha fatto quest'uomo è quella
di tener vivo il ricordo su di una tragedia di proporzioni immane
ricordandoci che cosa è l'amore, cosa è l'amore di
un genitore verso il figlio. io ho visto dal vivo alcuni di quei
campi e vi assicuro che non c'è un modo giusto di raccontarli.
non c'è. talmente assurda la scientificità di distruzione
e annientamento che saltano tutte le regole. che si azzerano tutte
le speranze e le ragioni. roberto inoltre credo che abbia avuto
un coraggio enorme. questo film è una di quelle cose che
vanno o bene, bene o male, male. non lo sai. sapete io ho bis-nonno
che quando ti racconta il giorno che l'hanno deportato in germania
su di un treno merci, scherza: ti dice che li tenevano stretti stretti
perchè non cascassero, che non gli davano da mangiare altrimenti
il viaggio gli avrebbe dato noia. e allora è giusto o sbagliato
questo modo di raccontare? inoltre per concludere che ti puoi aspettare
da un bambino che guarda una cosa? che la descriva con gli occhi
di un bambino. e se la osserva un genio che ti aspetti? probabilmente
qualcosa di ardito, forse di difficile comprensione. ma sicuramente
universale.
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CAPOLAVORO
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Gio, 19 anni, Lonato (BS).
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(12 Agosto 2002)
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Un grandissimo film.3 oscar
sono pochi.chi critica questo film non capisce un c***o |
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