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Il Movimento del 77: l’ultima avanguardia. TESTI X MC e X UD
Per tirar fuori la memoria del Movimento del 77 dal cono d’ombra del terrorismo, in cui è stato relegato sia per ipocrisia che per ignoranza, intendo
mettere in luce alcuni aspetti della cosiddetta ala creativa del movimento, in particolare quello sorto dall’occupazione dell’Università di Roma.
E’ in questo senso che rilevo l’esperienza degli Indiani Metropolitani, da cui è possibile cogliere fortissime tensioni di ricerca che riguardavano le
pratiche creative della scrittura e della performance, talmente avanzate da essere clamorosamente sottovalutate.
Eppure in molti di quei gesti è possibile trovare oggi delle chiavi per comprendere lo sviluppo di alcune mutazioni dei linguaggi e dei comportamenti:
dalle scritture mutanti on line a fenomeni come le “smart mob” ( i blitz auto-organizzati via SMS). Fenomeni che riconduco in buona parte alla
definizione di “performing media”: giocare le diverse potenzialità dei media attraverso azioni esemplari, per tradurre l’interattività in forme nuove
d’interazione sociale, perché non diventi automatismo.
Allora come oggi, e come sempre, lo sviluppo della tecnologia è in buona parte affidato alla mobilità.
Lo sviluppo della scrittura è affidato al fatto di poter essere trasportata: se fosse rimasta ai graffiti marmorei non sarebbe andata così lontano.
Così le fanzine, veri e propri giornali d’invenzione (altro che volantini) diffusi per le piazze delle città, oltre che nei cortei che
l’attraversavano, (riappropriandosene: “riprendiamoci la città”) si rivelavano come dei media straordinari veicolati dai nostri corpi in azione nello
spazio pubblico.
Già Yello Biafra del gruppo punk Dead Kennedys cantava “Non odiate i media. Diventate i media!”.
Gli Indiani Metropolitani hanno fatto questo.
Sia gli slogan che le fanzine autoprodotte rappresentavano allora una pratica indipendente e irridente della comunicazione, paragonabile, per alcuni
versi, a molte “ipertinenze” nel web. Azioni e dissimulazioni nella comunicazione.
Anche Maurizio Calvesi in “Avanguardia di massa” (Feltrinelli,1978) riuscì a cogliere alcuni di questi aspetti, mettendo addirittura in relazione
l’inaugurazione del Beaubourg e la comparsa degli Indiani Metropolitani: “ecco due avvenimenti la cui simultaneità potrebbe essere emblematica”,
dice.
Il critico d’arte sostiene poi che entrambi rappresentano “due aspetti complementari della massificazione della cultura”.
Questa analisi di Calvesi - importante, più che altro, perché allora fu l’unica ad analizzare il fenomeno, pubblicando anche l’immagine di “OASK?!”
accanto a quelle di Duchamp – ci conduce dove vogliamo:
in quei gesti creativi si coglieva il presagio della fine di un’epoca.
Nel suo piccolo, l’azione degli Indiani Metropolitani contribuì a sbilanciare l’asse della politica con un’opera così diffusa, così contagiante, fatta
di quelle interazioni tra arte e vita già lievitate in anni di culture pop ma ormai mature per demolire le retoriche del politichese.
Sia chiaro: non si trattava di creare forme d’arte ma di amplificare i corpi e le menti in fuga dalle sovrastrutture ideologiche per liberare energie
desideranti, per tradurre un pensiero divergente in azioni esemplari.
Le derive della mutazione
Gli Indiani Metropolitani nacquero da quell’amplificazione del pensiero in azione.
Spuntarono come un fungo, all’improvviso , in un habitat fertile, denso di un’umanità in agitazione.
I primi segnali di arrivarono dai Circoli Giovanili milanesi che annunciarono già nella fine del ‘76 nel manifesto “ abbiamo dissotterrato l’ascia
di guerra”, rilanciando un umore che già era emerso nella bolgia della Festa del Parco Lambro.
Erano sintomi di un disordine (grande ed eccellente) che stava montando, disgregando irreversibilmente le organizzazioni della sinistra
rivoluzionaria che fino ad allora avevano contenuto un gigantesco potenziale (si trattava di più di un milione di soggetti, tra i più attivi della
nuova generazione).
Lotta Continua da buon gruppo “spontaneista” aveva capito per tempo, auto-sciogliendosi proprio sulla contraddizione più bruciante: il corto circuito
tra il “personale” e il politico, ingestibile, più del minoritario militarismo.
Quel cortocircuito fu tale da provocare un forte e salutare disorientamento: sfondando i recinti della politica circolò nuova aria, ossigeno sul
fuoco. Una fiammata di energia incontrollabile che accese il Movimento del 77.
Si riscopriva la soggettività negata dall’oggettività illusoria della politica.
I linguaggi della militanza politica si confusero così con i comportamenti pop, creando stranissimi cocktail antropologici.
Fino a quel momento tutto scorreva in alvei predefiniti, un comunista rivoluzionario era una cosa, un fricchettone un’ altra. Si confuse tutto.
S’inaugurò l’era degli ibridi, si avviarono le derive della mutazione.
Gli Indiani Metropolitani, noi : un piccolo gruppo nato all’interno della Commissione Emarginati (si autodefinì in questo modo per distaccarsi
polemicamente dalle altre commissioni intestardite sui paradigmi della politica) dell’occupazione di Lettere all’Università di Roma nel febbraio
1977, giocarono proprio su questa confusione.
Fu un’operazione che si svolse a più dimensioni: una , quella determinante, consisteva nell’inventare slogan per lanciarli nelle assemblee ( e poi nei
cortei) da chi aveva la voce più grossa (“Beccofino” fu il nostro megafono) e scriverli con gli spray su muri e con pennarelli sui “tazebao”.
Un’altra era quella di compiere atti esemplari come inscenare cortei in fila indiana come quello improvvisato per lanciare il verso “Oask?!” (il nome
della prima testata di una lunga serie di fanzine... beh la prima fu "Enig/mistica" ideata con Massimo Pasquini) associandolo ad un particolare
movimento delle braccia , come per nuotare. O farsi il te (o il carcadé) nei cortei, per strada.
Oppure organizzare “sabba” al Pantheon (un “rave” ante litteram). O tapparsi la bocca con cerotti. Non tanto per truccarsi (lo facemmo solo due
volte) ma per spiazzare: non ci interessava la rappresentazione ma il blitz improvviso.
Il fatto straordinario era nel fatto che ogni slogan, ogni atto, ogni proclama una volta lanciato veniva preso dal Movimento, fatto proprio.
I mass-media, giornali e tv , non aspettavano altro. Si faceva colore e notizia.
E ne abbiamo approfittato: i media diffondevano il nostro virus, secondo un contagio mediatico ( “il linguaggio è un virus” dice Burroughs,
ricordate?).
Le nostre azioni, i nostri gesti, gli slogan, le fanzine, erano i media che contaminavano: un’epidemia simbolica. Un successo, se dovessimo valutare
con l’occhio d’oggi.
Fu proprio per questo “successo” che il nostro gruppo dopo poco, nell’arco di due mesi neanche , si dissolse come gruppo attivo nel movimento: non
si riconosceva nell’aggregazione di massa, teorizzava la dissimulazione, amava inventare linguaggi-comportamento divergenti ed essere “altrove”.
Emergeva la necessità di cercare altri spazi per elaborare una propria poetica d’intervento.
Così accadde che a maggio con l’occupazione della casa in Via dell’Orso 88, la “casa del desiderio”, si trovò uno spazio in cui vivere e produrre,
un luogo in cui catalizzare e sperimentare attivamente quel cortocircuito tra personale e politico ( “quanto entra il 77 nell’88?”) .
Quel luogo fu infatti più una fucina creativa che una comune: uno spazio liberato dove scambiare energie e non dove vivere vita collettiva bensì
“connettiva”, come potrei affermare oggi..
Già in “OASK?!” ci firmavamo come “Indiani Metropolitani in dis/aggregazione”, dopotutto.
Rivendicavamo la nostra dimensione molecolare e psico-nomade. Un po’ aristocratica ma per fortuna autoironica, consapevole e selvaggia o ancora meglio
tribale: sì, tribale. Nel nostro rigetto degli stereotipi del politichese emergeva un desiderio di altri modi di comunicare, tutti da sperimentare.
Rompendo le strutture formali del discorso, flirtando tra alfabeto e iconogrammi, destrutturando il linguaggio in un modo più vitalistico e casinista
piuttosto che concettuale, come invece emergeva dal collettivo “A/traverso” dei nostri fratelli maggiori di Bologna.
Le parole come gesti come virus
In questo va inscritta la pratica di usare le parole come gesti radicali, espressioni dissociate e demenziali, per spiazzare il senso comune, non
solo quello dei mass-media ma anche quello di quei tanti militanti incapaci di misurarsi con l’ironia.
Il “detournement” d’impronta situazionista era infatti un modello di riferimento, avevamo letto Debord e Vanegeim, ci avevano stordito ma ci avevano
segnato.
.Ma tutto era confuso, indeterminato, e per questo destinato a dissolversi, meglio: a dissiparsi .
E lo sapevamo: “... ma si , si, restiamo poesia, pura immaterialità”, diceva qualcuno dei nostri, forse Fanale.
Si stava cambiando pelle: si abbandonava la scoria ideologica ma non si acquisiva un ‘altra identità.
Si rimaneva in mezzo al guado della mutazione.
Nell’ irrequietezza diffusa si percepiva il fatto di essere proiettati in una rivoluzione antropologica che solo oggi si va delineando con il
neo-tribalismo e le molteplici evoluzioni del digitale : da fenomeni come il cyber-punk che hanno segnato i primi anni novanta all’esplosione dei blog
e dei wiki: gli ipertesti partecipativi che stanno diffondendo sempre più i nuovi processi cognitivi non lineari, sinaptici come il nostro immaginario
in libertà.
Sta diventando regola, e non più solo eccezione radicale, il gioco libero del pensiero laterale e delle associazioni d’idee, una sorta di “automatic
thinking” che libera energia creativa. Potenzialità che oggi sono inverate nel web.
Allora furono solo intuizioni magari influenzate da alcuni modelli come il Dada e il Futurismo.
Ricordo ancora l’influenza di una mostra sulle “parolibere” futuriste, e su Marinetti in particolare. Quelle immagini divennero informazioni
evolutive: vissute in quella mostra si erano annidate nella mia mente come un “meme” (il principio attivo del contagio culturale e comportamentale,
come afferma Dawkins) e appena s’incrociarono con gli input magistrali di Pablo e di Massimo (Pasquini) si scatenò il putiferio delle fanzine.
In quelle scritture la parola poetica trovava la soluzione d’impatto nella performatività, associata all’azione. Lo slogan, il medium più usuale della
lotta politica, fu così utilizzato per la produzione di una drammaturgia paradossale, guerrigliera, radicalmente teatrale.
Il Movimento del 77 mise in campo, infatti, oltre alla conflittualità armata una guerriglia urbana performativa.
Ma attenti a non interpretarla sempre come una festa felice.
I girotondi inventati dal movimento femminista erano finiti.
La performatività neosituazionista dei blitz “indiani” esprimeva più che altro un’insofferenza generazionale: una domanda di nuove visioni, nuove
parole, nuovi comportamenti. Una domanda che non trovava risposte.
Tutto questo strideva con le sovrastrutture ideologiche della politica. Ci fu non solo quel cortocircuito di cui ho già parlato, ma un tilt (quello
che si provoca ai flipper quando li scuoti troppo… lo dico perché i flipper non esistono quasi più…sostituiti dai videogame).
Una rottura irreversibile con il mondo della politica proiettandosi in una deriva senza futuro: “ no future” recitava non a caso il movimento punk,
sorto in quello stesso periodo.
E’ qui che si delineò quella consapevolezza d’essere “l’ultima avanguardia”; anche se altre generazioni molti anni dopo (con i movimenti della
“pantera” o del “no-global”) hanno ritrovato l’energia antagonista, quello che non poteva può ricrearsi era quella sensazione di agire sulla punta del
naso del mondo.
Il mondo da allora corre molto di più, sulle onde e sulle reti della comunicazione istantanea, non lo si anticipa più.
Al massimo lo si può giocare, battendolo al suo stesso gioco: quello della comunicazione globale, dissimulandola, ibridandola con ciò che c’è di più
“locale”.
La tua soggettività connettiva.
Un esempio? I blog. Dalla storia alle storie, come scrivemmo allora.
Carlo Infante
per@carloinfante.info
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da IL MESSAGGERO/Macerata
I “Pellirossa” in città di PIERFRANCESCO GIANNANGELI
ALCUNE settimane fa a Berlino una folla composta da un centinaio di persone si ritrovò a una certa ora all'angolo di una certa piazza, per urlare una
frase. Poi l'assemblea si sciolse, ognuno per la sua strada. Ciascun partecipante era stato convocato all'appuntamento, qualche ora prima, da un sms
arrivato sul suo telefono cellulare. Come a Berlino, anche in altre grandi città del mondo occidentale, questi "blitz" sono diventati un'abitudine.
Sembrano una novità, ma lo sono soltanto per chi non ha la memoria tanto lunga. Eppure è passato soltanto un quarto di secolo da una delle esperienze
più straordinarie di performance creativa basata sull'immediato, sul qui e ora, sul mordi e fuggi: gli Indiani Metropolitani . Fenomeno sottovalutato,
il loro, forse perché maturato all'interno del Movimento del '77. E l'equazione settantasette-terrorismo è ormai diventato un luogo comune, talvolta
per evitare riflessioni più approfondite. Ora una mostra a Macerata (galleria degli Antichi Forni, fino al 2 marzo) cerca di declinare al plurale
quella complessa stagione. Anni di sanguinosa e tragica lotta armata, senza dubbio, ma certamente anche anni di rinnovamento dei linguaggi, di
controcultura politica fuori dai partiti, di disobbedienza civile nel tentativo di raggiungere nuovi codici legislativi, come fu per il servizio
civile in alternativa alla leva militare.
Lo sguardo che racconta il '77, dunque, non può prescindere dagli Indiani Metropolitani. Uno di loro era Carlo Infante , romano trapiantato a Torino,
esperto di web, inventore dell'idea di "performing media", docente all'Accademia di belle arti di Macerata. «Non ci interessava la rappresentazione,
ma il blitz improvviso» dice. «E la performatività neosituazionista dei blitz "indiani" esprimeva più che altro un'insofferenza
generazionale: una domanda di nuove visioni, nuove parole, nuovi comportamenti. Una domanda che non trovava risposte». Amplificazione del pensiero in
azione, così nacquero gli Indiani Metropolitani, costola dell'occupazione della facoltà di Lettere all'Università di Roma, in quel febbraio del '77.
«Nel suo piccolo - dice ancora Infante - l'azione degli Indiani Metropolitani contribuì a sbilanciare l'asse della politica con un'opera così diffusa,
così contagiante, fatta di quelle interazioni tra arte e vita già lievitate in anni di culture pop, ma ormai mature per demolire le retoriche del
politichese».
Ci sarà anche un dibattito per il diritto alla casa
Macerata
SI intitola Spazi occupati e spazi liberati la mostra alla galleria degli Antichi Forni, a Macerata, dedicata al Movimento del '77. La organizzano il
centro sociale Sisma e l'associazione Ya basta . Resterà aperta fino al 2 marzo, tutti i giorni dalle ore 16 alle 23 (ingresso gratuito). In
esposizione immagini, riviste, volantini, giornali e video messi a disposizione da associazioni ed istituzioni. Tra le foto ci sono anche quelle di
Enrico Scuro e Walter Pagliero , oltre a testimonianze sulla stagione maceratese del Movimento. All'interno dell’iniziativa anche un cartellone di
appuntamenti. Domani (ore 21.30) Marco Philopat presenta il libro I viaggi di Mel . Giovedì (ore 17.30) happening-dibattito su La metropoli indiana ,
con Pablo Echaurren, Nanni Balestrini, Carlo Infante, Maurizio Gabbianelli, Olivier Turquet e Fiamma Lolli . Venerdì (ore 17) dibattito sulle radio
libere in Italia, con Paolo Ricci ( Radio Alice ), poi proiezioni del documentario Alice in paradiso (ore 18.30) e del film Lavorare con lentezza di
Guido Chiesa (ore 22). Mercoledì 2 marzo (ore
21.30) incontro-dibattito su L'esperienza di Action e la lotta per la casa oggi .
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carlo
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Le derive del 77. TESTO X UDINE
L’alterità teatrale come condizione post-politica
Può essere una buona occasione, questa, per cercare di capire in che in modo una tensione teatrale di ricerca possa contribuire ad una ridefinizione
della politica intesa, secondo il suo principio originario, di partecipazione e di condivisione dello spazio pubblico. Qualcosa che è al di là delle
ideologie e dei tatticismi di partiti e cose simili.
Prima di tutto sgombriamo il campo da un equivoco: per me ricerca non significa più (le stagioni dell’avanguardia sono storicamente esaurite)
sperimentazione radicale dei linguaggi ma desiderio di trovare quelle condizioni attraverso cui ricreare empatia e alterità.
Si, amo pensare la mia domanda di teatro come spinta per uscire fuori di me per andare incontro ad altro, all’altro.
E’ in questo senso che considero emblematica l’esperienza di Marco Baliani che con “Kolhaas” (1990) ha aperto la pista per quel teatro dell’oralità
che si attesta al di qua della rappresentazione, dilatando lo spazio della compassione, dell’emozione partecipata dello spettatore.
A questo punto il riferimento a Baliani può diventare un pretesto per aprire una finestra su ciò che definisco la “post-politica”, condizione che per
me (come per lui e tantissimi altri) s’è sviluppata nel 1977, l’anno che ha concluso il 68, sigillando una conflittualità senza ritorno. Chiudendo una
fase in cui la politica era stata anche espressa dalla militanza teatrale, in particolare quella che ho condiviso con Marco: dall’occupazione dei
primi Centri Sociali ( come il “4 Novembre” di Ostia) all’animazione che faceva del teatro uno dei modi per ricompattare il tessuto sociale disgregato
nei quartieri dell’urbanizzazione e dello sradicamento.
Un ottimo pretesto sarà ,quindi, quando lo rivedremo insieme ad Udine (magari combinato con un incontro di riflessione su quel 77) il suo “Corpo di
Stato” (1998), titolo bellissimo che narra dell’amarezza dell’impotenza politica.
Ma qui, ora, voglio evidenziare (rielaborando un frammento di un saggio scritto per il libro “Settantasette” DeriveApprodi-Castelvecchi 1997) le
caratteristiche dirompenti del movimento del 77 che, nel bene e nel male, ha segnato le nostre storie. Si, dalla Storia alle storie.
Il cortocircuito tra vita e politica
Quello che e' accaduto nel 77 fu fondamentalmente cortocircuitare la vita con la politica, facendo grande confusione. Proprio come fecero,
affermando per la prima volta la sperimentazione tra arte-vita, le avanguardie storiche del Dada e del Surrealismo prima e quelle Situazioniste poi.
Un dato scontato dal punto di vista teorico ma inedito per quanto riguarda la sua diffusione, come un virus, nella società che dopo l’avvento della
scolarizzazione di massa iniziava a sfornare un paradossale proletariato intellettuale. Questo cortocircuito trovò così forma nei linguaggi
collettivi di un movimento che tradusse in azioni di massa ciò che le avanguardie esprimevano in forme esclusive: atti esemplari-performance,
slogan-parolibere, ironie e metafore creative. La radicalità dei linguaggi e dei comportamenti invadeva le
città, la sperimentazione debordava dai luoghi deputati dell’arte, un fenomeno come quello degli “indiani metropolitani” si diffuse come un virus
performativo. Questo fenomeno fu messo in relazione dallo storico dell’arte Maurizio Calvesi (“Avanguardia di Massa”, Feltrinelli 1978) con
l’istituzione del Beaubourg a Parigi, il primo centro culturale metropolitano, accomunando fanzine ( i nostri giornali) come “Oask?!” ai ready-made di
Duchamp. Aggiungerei l’Apple2, il primo personal computer apparso proprio nel 1977.
L'avanguardia diventando di massa si negò in quanto tale. Si superò da sola.
L'ultimo capitolo dell' avanguardia Affermare che il 77 scrisse l'ultimo capitolo dell' avanguardia è
quindi un punto di svolta per tutta questa riflessione.
Ripensare ciò che è accaduto acquista così il sapore indeterminato di un‘esperienza ibrida, contraddittoria già nella sua matrice originaria: scissa
tra la dimensione pubblica e quella privata, tra una dinamica d’avanguardia e una di massa. Una contraddizione come quella tra oblio e memoria in cui
si ripercuote oggi la ricerca di una chiave per interpretare quel fenomeno. E' per questo che oggi c’è la voglia di cogliere
gli elementi germinali che il movimento del 77 generò , attivando attraverso il rigetto delle ideologie politiche il primo stadio di una deriva
post-politica.
Un oblio, appunto. Un andamento di progressivo azzeramento delle certezze e dei valori consolidati sui quali si poggiarono gli anni settanta
dell’impegno militante. Allora si avviò un moto iconoclasta (“l’inizio della fine”, il “no-future” del punk) che produsse presagi della mutazione
culturale e antropologica oggi in atto. Un dato quest’ultimo che rende evidente e non più astratto il passaggio dalla civiltà umanista ad
una caratterizzata dallo sviluppo centrifugo delle tecnologie digitali, in cui si pone l’emergenza di una riconfigurazione sensoriale, psicologica e
cognitiva.
Ecco la chiave: il movimento del 77 sperimentò sulla propria pelle l’urgenza di una mutazione radicale dei modelli culturali predeterminati. Nel
superamento della politica come paradigma esistenziale ancor più che ideologico tentò di innescare una rivoluzione antropologica, basata cioè sui
comportamenti e i linguaggi espressivi . Un po’ come accadde in altre società, come quelle anglosassoni, con il movimento hippie, già nei primi anni
sessanta, e punk, nella seconda metà dei settanta. Ma le tensioni dello scontro sociale allora in atto (allora violentemente esorcizzate dal patto
consociativo DC-PCI) resero impossibile lo sviluppo di questo processo italiano, più complesso, più ricco di sfumature culturali e teoriche. E tutto
finì nel crogiuolo dell’antagonismo violento e disorientato, azzerato dalla repressione e dalla depressione. Per comprendere oggi il senso della
mutazione del nostro tempo accelerato può essere importante individuare i sintomi e le matrici di un linguaggio che allora liberò energie creative
straordinarie e che da allora vaga come una mina inesplosa.
La dissipazione dell’energia desiderante
Ma c'è qualcosa da chiarire ancora a proposito dell'oblio: non è una questione di rimozione , c'é qualcosa di molto piu' pregnante e riguarda
quella vaghezza desiderante che caratterizzò molti dei linguaggi-comportamento del movimento, almeno la sua ala creativa .
La vita aveva fatto cortocircuito con la politica: la militanza si era già disintegrata nelle feste del proletariato giovanile del 1976 ma é nella
massa critica del movimento del 77 che questa felice confusione antagonista ed esistenziale raggiunge l'apice.
L'oblio e quella dissipazione desiderante nascono qui. E’ nel processo di entropia, ovvero in quella progressiva perdita dei valori di
riferimento, che si connotò una generazione ribelle alla deriva. Una condizione che nel punk trovò una sua forma mentre in Italia i residui
dell'aggregazione politica si confusero sia con il nichilismo insurrezionale che con il lassismo fricchettone. Diverse anime teoricamente
incompatibili ma spesso intrecciate in promiscue e casuali esperienze di vita comune. Forse è proprio in questa confusione di matrici culturali
diverse che s’innescò quella ibridazione che diede forma ad un movimento giovanile che sperimentò quel “nomadismo psichico” che solo oggi può essere
riconosciuto come un valore se si pensa alla navigazione nel web.
Allora in quel movimento di “mutanti” il principio stesso della deriva, come modo di stare e interpretare il mondo, fu espresso anche se non
acquisito pienamente come strategia etica ed estetica.
Oltre ad essere una parola densa d'evocazioni ( come quella del Movimento Situazionista, uno dei pochi riferimenti ideali per l'ala creativa del
movimento) “deriva” rappresentava bene il nostro abbandono morale, indolente ma inferocito. Era quel senso di ultima spiaggia che segnò quella
generazione perduta: la generazione che ha dissipato la propria energia desiderante.
A tal punto da diventare invisibile a sé stessa e alla Storia.
Non rimangono che le storie.
Carlo Infante
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IL CORTOCIRCUITO TRA VITA E POLITICA: DALLA STORIA ALLE STORIE
A Udine
Il 22 marzo
Alle ore 18
Alla Civica Accademia d’Arte Drammatica “Nico Pepe”
C'è
ALLA RICERCA DEL TEATRO CHE NON C’È
DUE LIBRI E DUE MODI DI CERCARE
incontro con
Marco Baliani
autore di Nel regno di Acilia (ed. Rizzoli)
Carlo Infante
autore di Performing Media (ed. Novecento::libri)
intervengono
Mario Brandolin,Valter Colle, Claudio de Maglio, Angela Felice
Il giorno dopo
Il 23 marzo
Alle ore 18
Auditorium Zanon
Si parla di
LE DERIVE DEL 77
IL CORTOCIRCUITO TRA VITA E POLITICA: DALLA STORIA ALLE STORIE
incontro-conversazione tra ascolti musicali e visioni con
Marco Baliani, attore-autore
Valter Colle, editore musicale
Pier Mario Ciani, editore
Corrado Della Libera, architetto
Angela Felice, critico teatrale
introduce e coordina
Carlo Infante, docente di Performing Media
Un’occasione per porre attenzione all’altra faccia degli anni di piombo: quella espressa dall’ala creativa del Movimento del 1977.
I protagonisti dell’incontro parleranno di quegli anni e dei loro stati d’animo e di come, ciascuno a suo modo, hanno tradotto quell’esperienza in una
tensione culturale che li ha condotti chi verso il teatro estraneo alle convenzioni, chi nell’editoria che valorizza le pratiche indipendenti musicali
e poetiche, chi nel tentativo di coniugare l’happening con i nuovi media.
Seguirà alle ore 21
CORPO DI STATO
di e con Marco Baliani
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carlo
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una citazione in un articolo pubblicato
sul Dossier 1977 de Il Resto del Carlino nel febbraio 2007
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