L’ultima avanguardia
Il Movimento del 77: L’ultima avanguardia
Dalla creatività molecolare e disgregata alla mutazione post-umanista
Centriamo subito il punto cardine. Tanti, troppi, vedono nel Movimento del ‘77 un “buco nero” della storia italiana. Una stagione imbarazzante,
maledettamente e facilmente liquidata nella definizione omnicomprensiva di “anni di piombo” . Una fase rimossa perchè fatta coincidere con la
violenza del terrorismo, sia quello “piccolo” e sbandato, spesso costretto ad atti inconsulti perchè braccato e incastrato da sommarie repressioni,
sia quello “grande”: grande almeno quanto la sua strategia, paranoica e ossessionata da schemi ideologici antistorici. Un piccolo e grande
terrorismo che , dall’Autonomia alle Brigate Rosse, ha colonizzato l’immaginario di un “uomo-massa” che ama coltivare più le paure che i
desideri.
Il guaio è che a non aver colto le potenzialità evolutive di quel moto di rivolta non sono solo quelli che fuori del Movimento non hanno capito e
quindi demonizzato ma anche molti che “dentro” il flusso degli eventi si sono lasciati trasportare a migliaia, orfani di certezze, di modelli
ideologici e canoni comportamentali. E anche quelli troppo snob per lasciarsi andare al flusso delle esperienze. Tutti perdendo molto (le stagioni
della militanza politica hanno depauperato dell’adolescenza un’intera generazione) e acquisendo poco di quella ricchezza esperienzale che
attraversava il Movimento.
Il guaio è che ancora oggi in molti, troppi, pensano che sia più importante l’economia che la percezione.
Eppure l’andamento del mondo è talmente accelerato che solo chi è disponibile a modificare , se non a riconfigurare, i propri assetti percettivi e
cognitivi, riuscirà a proiettarsi nel futuro digitale: in un corso evolutivo dettato dalle tecnologie multimediali e telematiche e dalla capacità
umana di tradurle in nuova qualità di vita. Un aspetto che molti sottovalutano, rivelando degli schemi mentali ancorati a modelli predeterminati
. Eppure nella rivoluzione digitale è possibile giocare ora delle opportunità che allora era possibile solo presagire: proiettarsi in una nuova
dimensione di coscienza, liberandosi dalle gabbie di linguaggio e di comportamento indotto dalla civiltà umanista. Rompere gli schemi per creare
altre forme di comunicazione e di condivisione. Uscire fuori dai canoni per entrare nel ciclo di una mutazione culturale e antropologica che oggi
inizia a prendere forma.
Allora qualcuno trovò il modo per vivere il passaggio post-politico come il sintomo di questa mutazione, affinando la propria sensibilità ,le proprie
percezioni alla ricerca di altre forme di esistenza.
E’ una questione di disponibilità, un ‘attitudine che in parte fu coltivata con il consumo di droghe, più o meno leggere, ma che trovò la condizione
migliore nelle pratiche creative della scrittura, dell’azione teatrale e della musica. Un’apertura delle porte della percezione che liberò
un’incontrollabile energia desiderante.
Non si trattava di usare forme d’arte ma di amplificare i corpi e le menti in fuga dalle sovrastrutture ideologiche.
Le derive della mutazione
Gli Indiani Metropolitani nacquero da quell’ impulso di amplificazione del pensiero in azione.
Spuntarono come un fungo, all’improvviso , in un habitat fertile, denso di un’umanità in agitazione. I primi segnali di “indianità” arrivarono dai
Circoli Giovanili milanesi che annunciarono già nella fine del ‘76 nel manifesto “ abbiamo dissotterrato l’ascia di guerra”, rilanciando un umore
che già era emerso nella bolgia della Festa del Parco Lambro. Erano sintomi di un disordine (grande ed eccellente) che stava montando, disgregando
irreversibilmente le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria che fino ad allora avevano contenuto un gigantesco (si trattava di più di un
milione di giovani) potenziale. Lotta Continua da buon gruppo “spontaneista” aveva capito per tempo, autosciogliendosi proprio sulla contraddizione
più bruciante: nel corto circuito tra il “personale” e il politico. Un dato significativo che provocò certamente un forte disorientamento: aprendo le
porte circolò nuova aria, ossigeno sul fuoco. Una fiammata di energia incontrollabile.
Si riscopriva la soggettività negata dall’oggettività illusoria della politica.
I linguaggi della militanza politica si confusero così con i comportamenti “freak”, creando dei stranissimimi cocktail antropologici. Fino a quel
momento tutto scorreva in alvei predefiniti, un comunista rivoluzionario era una cosa, un fricchettone un’ altra. Si confuse tutto. S’inaugurò l’era
degli ibridi, si avviarono le derive della mutazione.
Gli Indiani Metropolitani, noi : un piccolo gruppo nato all’interno della Commissione Emarginati (si autodefinì in questo modo per distaccarsi
polemicamente dalle altre commissioni intestardite sui paradigmi della politica) dell’occupazione di Lettere all’Università di Roma nel febbraio ‘77,
giocarono proprio su questa confusione. Fu un’operazione che si svolse a più livelli: uno , quello determinante, consisteva nell’inventare slogan
,lanciarli nelle assemblee da chi aveva la voce più grossa (“Beccofino” fu il nostro megafono) e scriverli con gli spray e su “tazebao”. Un altro
era quello di compiere atti esemplari come quelli di inscenare cortei in fila indiana (ma perchè si dice così?) lanciando il verso “Oask?!” (il nome
della testata della nostra fanzine) associandolo ad un particolare movimento delle braccia , come per nuotare. O farsi il te (o il carcadé) nei
cortei. Oppure organizzare “sabba” al Pantheon (un “rave” ante litteram). O tapparsi la bocca con cerotti. E non tanto per truccarsi: lo facemmo
solo due volte. Il fatto straordinario che ogni slogan, ogni atto, ogni proclama una volta lanciato veniva preso dal Movimento, fatto proprio.
A migliaia si truccavano e danzavano scombinati all’urlo “ea,ea,ea... ah! ”
I massmedia, giornali e tv , non aspettavano altro. Si faceva colore e notizia.
E fu anche per questo che il nostro gruppo dopo poco, nell’arco di due mesi neanche , si dissolse come gruppo attivo nel movimento: non si
riconosceva nell’aggregazione di massa, amava inventare linguaggi-comportamento e cercare altri spazi per elaborare una propria poetica
d’intervento. Così accadde che a maggio con l’occupazione della casa in Via dell’Orso 88, la “casa del desiderio”, si trovò uno spazio in cui vivere
e produrre. Quel luogo fu infatti più una fucina creativa che una comune fricchettona. Già in “OASK?!” ci firmavamo come “Indiani Metropolitani
in dis/aggregazione”. Rivendicavamo la nostra dimensione molecolare e psiconomade. Un po’ aristocratica ma per fortuna autoironica.
Le parole come gesti come virus
L’esperienza più forte del Movimento del ‘77 fu nell’usare quindi le parole come gesti, spiazzando il senso comune e non solo quello dei massmedia
ma anche quello di quei tanti militanti incapaci di misurarsi con l’ironia.
Il “detournement” d’impronta situazionista era infatti un modello di riferimento, avevamo letto Debord e Vanegeim, ci avevano stordito ma ci avevano
segnato.
Le parole-gesti erano come virus, contagianti. Nell’arco di qualche ora uno slogan lanciato in un corteo o un proclama su un “tazebao” diventavano
linguaggio collettivo, l’impronta del Movimento.
Ma tutto era confuso, indeterminato, e per questo destinato a dissolversi .
E lo sapevamo: “... ma si , si, restiamo poesia, pura immaterialità”.
Si stava cambiando pelle: si abbandonava la scoria ideologica ma non si acquisiva un ‘altra identità. Si rimaneva in mezzo al guado della
mutazione.
Si, la mutazione. Nella irrequietezza diffusa si percepiva il fatto di essere proiettati in una rivoluzione antropologica che solo oggi si va
delineando con l’avvento del digitale : con l’emergere di nuovi processi cognitivi non lineari. Sinaptici come il nostro immaginario. Il gioco
libero delle associazioni idee, una sorta di “automatic thinking” liberava energia creativa. Potenzialità che oggi trovano una forte risoluzione nella
navigazione telematica.
Allora furono solo intuizioni magari influenzate dai migliori modelli possibili. Avevamo le avanguardie storiche come esempio, il Dada in primo luogo
e il Futurismo.
Qualche mese prima una mostra sulle “parolibere” futuriste e su Marinetti in particolare si era annidata nella mia mente come un “meme” (il
principio attivo del contagio comportamentale, come afferma Dawkins). In entrambi quei movimenti dell’avanguardia la parola poetica trovava quindi
la soluzione d’impatto nella performatività, associata all’azione. Lo slogan, il medium più usuale della lotta politica, fu così utilizzato per la
produzione di una drammaturgia paradossale, guerrigliera, intimamente teatrale.
Ma non si pensi al teatro come forma estetica o come interpretazione di repertori: si pensi al rapporto corpo-parola espresso da gruppi come il Living
Theatre portatore della “prima rivoluzione sessuale” in Europa o ai blitz barbari delle performance radicali dei catalani della Fura dels Baus,
grandi officianti di teatro panico.
Il Movimento del ‘77 mise in campo oltre alla conflittualità armata ( di molotov, tante, le pistole invece furono sempre poche e maledette) una
guerriglia urbana teatrale. Ma attenti a non interpretarla sempre come una festa felice. I girotondi delle femministe erano finiti. Quella
performatività neosituazionista esprimeva altresì un’insofferenza generazionale: una domanda di nuove visioni, nuove parole, nuovi comportamenti. Una
domanda che non trovava risposte.
Tutto questo strideva con le sovrastrutture ideologiche della politica. Ci fu un cortocircuito. Un tilt. Negli stessi mesi a Londra prendeva corpo
il movimento punk che allora erano addirittura visti da alcuni come dei “fascisti”. Un’ignoranza che albergava anche in noi, spiazzati ma polemici
con quegli amici (come Walter) che tornando da Londra ci trasmettevano l’entusiasmo di quel fenomeno nichilista. Gli inglesi erano molto meno
pervasi di noi italiani di politica ed ideologia , la loro cultura rock gli permise infatti una maggiore stilizzazione , riuscendo ad essere più
determinati nell’impatto formale e comportamentale.
Ma anche noi eravamo in qualche modo punk: nichilisti come loro. Il pessimismo ci intossicava la vita. Il tormento del “no-future” fu certamente il
motivo intimo di tante scelte sconsiderate durante i conflitti di piazza.
“La distruzione è liberazione”, recitava una scritta a Lettere.
L’inizio della fine
“E’ stato l’inizio della fine”, ho sentito infatti dire a qualcuno. E a ragione.
Ma la fine di che? Della politica prima di tutto. Ovvero di quel valore di aggregazione sociale e di interpretazione del mondo che , basato su
principi ideologici, esprimeva uno stato di realtà, un modo di vita, una consapevolezza, una visione globale. Si capì di colpo che era tutto
illusorio: un carosello fittizio di pensieri indotti. Per molti fu traumatico.
Sembrerà naif ma piansi nel ritagliare a forma di puzzle il ritratto di Lenin che campeggiava sopra il letto per farne un rompicapo da ciclostilare
(si, ciclostilato proprio su quella carta porosa dei volantini di allora) per la fanzine che realizzai con Massimo Pasquini nel marzo 1977 da
diffondere all’interno dell’Università occupata. Era “Enig/mistica” e l’immagine di Lenin era irriconoscibile, scomposta nelle varie tessere di un
puzzle siglato dallo slogan : “Sparpagliamo il centralismo!”. Con un chiaro e netto esclamativo programmatico. “Enig/mistica” fu un successo
editoriale (?!), era quello che ci voleva, il sottotitolo recitava: ”un foglio camomilla” si, per tranquillizarci un pò, dopo il terribile scontro
frontale con Lama e i suoi servizi d’ordine.
Un’esperienza durissima. Un buco nero della sinistra.
Il ‘77, il Movimento del ‘77, ha segnato in questo Paese chiamato Italia un punto di non ritorno. Una linea d’ombra, mi viene da dire, anche se
l’evocazione conradiana rischia di apparire troppo facile.
Ma è così proprio perchè l’impronta generazionale fu nettissima.
I ventenni-trentenni che vissero quei momenti di conflittualità estrema ed irregolare (furono tantissimi, centinaia di migliaia) rimasero marcati
dentro, molti ne uscirono incattiviti, altri talmente disillusi da mettersi a disposizione del primo committente spregiudicato (fu la fortuna del
craxismo) e altri ancora orribilmente rassegnati, arresi alla quotidianità più inerte. Altri, tanti purtroppo, non ne sono usciti proprio.
Qualcuno è addirittura ancora in galera, qualcuno morto di overdose, altri (maledizione!) di AIDS, tanti storditi dall’eroina o “scoppiati”
per quell’entropia che porta alla pazzia e impoveriti a tal punto da diventare fantasmi.
Il fatto che la ricchezza di quella generazione si sia perduta così , fa rabbia più che tristezza. La memoria di quel Movimento rimane ancora viziata
dal tabù del terrorismo ma va superato, spurgato dall’immaginario nazionale. Va riconosciuto un valore: quello di aver anticipato quella mutazione
postumanista che oggi è davanti agli occhi di tutti anche se a molti imbarazza.
Maurizio Calvesi in “Avanguardia di massa” (Feltrinelli,1978) riuscì a cogliere degli aspetti importanti, mettendo addirittura in relazione
l’inaugurazione del Beaubourg il primo febbraio e la comparsa degli Indiani Metropolitani , “ecco due avvenimenti la cui simultaneità potrebbe essere
emblematica”, dice.
Il critico d’arte sostiene poi che ambedue, Beaubourg e Indiani Metropolitani , sono “due aspetti complemenari della massificazione della cultura”. Va
detto che si concede almeno il beneficio di un interrogativo.
L’elemento da porre come scardinante di questa analisi (che merita comunque il massimo rispetto proprio perchè è stata una delle pochissime ad
analizzare il fenomeno, pubblicando anche l’immagine di “OASK?!” accanto a quelle di Duchamp) è che in quelle pratiche creative del ‘77 è possibile
cogliere un dato ulteriore: si tratto’ de “l’ultima avanguardia”. Il fatto di aver creato un’opera così diffusa di interazioni arte/vita portò al
compimento la missione storica delle avanguardie. Il Movimento del ‘77 avviò le derive di una mutazione culturale postumanista e può essere
riconosciuta emblematicamente come “l’ultima avanguardia”.
E’ da qui che si potrebbe partire con altre analisi legate alle sperimentazioni teatrali e multimediali che dalla fine degli anni settanta si sono
sviluppate sulla base di quelle intelligenze e sensibilità sopravvisute al riflusso. La postavanguardia teatrale promossa da Giuseppe Bartolucci fu
certamente un alveo straordinario di queste energie eversive che rifondarono i linguaggi scenici , avviando ad esempio una ricerca
“patologico-esistenziale” che affondava a piene mani nella turbolenza schizoide dell’ala creativa del Movimento. Si potrebbero fare tanti nomi ed
esempi ma solo uno trovo opportuno lasciare qui alla fine di questo percorso: quello di Massimo Terracini, figlio di Umberto, con cui ho condiviso
gran parte di quel percorso (“OASK?!” e altre fanzine, la casa occupata dell’”Orsottantotto”, tanti scontri in piazza...) e che poi seppe rilanciare
la propria creatività in campo musicale e poi teatrale. Un compagno di strada che ho ritrovato poi sul campo dell’invenzione di linguaggi che
ancora non siamo riusciti a tradurre in discorsi.
“Dalla storia alle storie”.
Carlo Infante
DIDASCALIE AI FRAMMENTI DI FANZINES
1. Da “OASK?!” Roma, febbraio 1977. (Editoriale tutto)
E’ un testo che nasce da caotiche discussioni collettive ma è il tocco di Maurizio Gabbianelli detto “fanale” a dare l’impronta decisiva.
Tra le tante è una la formula retorica centrale da rilevare:
“diffidate della realtà... diffidate dello stato di aggregazione presente!”
Si rivendica una sorta di ironica aristocrazia tesa a sottrarsi dall’”indianità” dilagante: abbiamo lanciato il virus, il contagio è avviato, andiamo
oltre: altrove. Il virus è la nostra produzione di linguaggio: parole da usare come atti esemplari, manifesti deliranti, più poetici che politici,
gesti.
2. Da “OASK?!”. (pg 2 , quella con l’indiano con proboscide..., testo d’apertura:.
“essere nel e per il movimento...” )
In questo testo si traccia il desiderio di un salto di qualità progettuale che già covava all’interno della “commissione emarginati” (così
autoproclamata per polemica con i “più politici”) del comitato d’occupazione di Lettere all’ Universtà di Roma. Già allora si era delineato l’intento
di avviare laboratori teatrali e musicali e in questo sintetico proclama scritto da Massimo Pasquini che con me aveva già partecipato un anno prima
all’occupazione di un centro sociale ad Ostia, organizzando laboratori ed eventi teatrali, si rivendica questa vocazione performativa.
La spettacolarità che qui si evoca è “situazionista”, irregolare, urbana.
Si parla di “sperimentazione in spazi vergini o sverginati” un po’ come in prima pagina si lanciava come in un grido: “voglia di spazi liberati...
annamo ad occupà”. E fu quello che accadde a maggio con l’occupazione della casa di Via dell’Orso 88. Un vero covo di vita e scrittura creativa.
3. Da “ABAT/JOUR” Roma, aprile 1977. (Pg1Disegno in alto a sinistra.)
Nel pantheon marxista-leninista , dopo Marx, Engels,Lenin,Stalin e Mao fa apparizione un personaggio inedito, inventato da Pablo Echaurren.
Giacca,cravatta , un’orchidea all’occhiello. La dicitura “supplemento a La femme chic” esaspera la banalità di base d’impronta situazionista. E’
l’antesignano di Luther Blisset.
4. Da “ABAT/JOUR”. (Pg1.In basso a sin)
“Mai più senza limone”
Uno slogan chiaro e netto, ironico nell’interscambio con la parola “fucile” , quando lo slogan era stato coniato per le manifestazioni contro il Golpe
in Cile. Paradossalmente il nuovo slogan era più violento: “mai più senza fucile” veniva utilizzato quasi esclusivamente come sostegno alla
guerriglia cilena contro i militari golpisti e poi nel 1975-76, quando fu coniato, non esistevano armi da fuoco in piazza. “Mai più senza limone”
era invece programmatico: l’acido citrico proteggeva dai gas lacrimogeni, un fazzolletto ben spruzzato dal limone permetteva di tollerare le cortine
fumogene. Ma più che altro era l’idea della fettina di limone per il te ad essere lanciata come un’ironica indicazione a sottrarsi dalla
conflittualità di piazza per accomodarsi nei salotti.
5. “ALTROVE/MATERIALI” Roma,dicembre 1977. (pg1 in basso a sin)
“il leader è la spettacolarizzazione...)
Un testo breve ma inesorabile nell’evocazione delle buone letture situazioniste (Vanegeim e Debord) di Pablo Echaurren.
Un segnale importante contro la smania di leaderismo che impazzava nel Movimento ormai stanco, esaurito, alla deriva. Siamo all’inizio del ‘78 e
anche il gruppo di “OASK?!” si è quasi dissolto.
Sotto la testata è scritta la strategia più giusta: “...ma si, si, restiamo poesia, pura immaterialità...” Una profonda rivendicazione dello stato di
invisibilità.
6. “ALTROVE/MATERIALI” . Scritta in pennarello al centro
“La storia ha sancito...”)
E’ l’affermazione esatta di quello che è successo nel ‘77.
L’ostinazione politica e la demenzialità paramilitare determinò una dura, bruciante sconfitta del Movimento. La repressione fu violentissima. Tanta
paura, disperazione e incarognimento di una generazione che nel superamento degli schemi mentali della politica stava per trovare una dimensione
culturale forte, autonoma nella produzione di nuovi linguaggi e comportamenti. Un po’ come era riuscito ad essere il fenomeno punk a Londra e , per
altri versi, come tanti nostri coetanei che in altri paesi europei fecero della loro gestione di spazi liberati dei modelli per le politiche
culturali istituzionali.
7. ALTROVE...
“e’ amaro il gusto che pervade...”
La scritta lapidaria si chiudeva con “dalla storia alle storie”, rivelando il passaggio dalla macrostoria delle ideologie alle pratiche di vita
molecolari come quella della casa occupata di Via dell’Orso 88. Quel luogo fu importante per Roma. Per più di sei mesi si riusci’ ad abitare in pieno
centro storico, dietro Piazza Navona, in un palazzetto settecentesco di tre piani con due terrazze, bellissimo.
Una casa che divenne un epicentro per quell’area creativa del movimento che qui riuscì a trovare il modo per alimentare la propria sensibilità.
In questo testo emerge un tono emozionale vagamente lirico, condito di riferimenti soggettivi, tutti rivolti alla vita vissuta all’Orso, agli amori ,
alle bevute e alle vie di pensiero. . Le scale della casa erano tappezzate di lettere e “tazebao” (i manifesti-proclami) che incitavano gli altri ad
affrontare problemi teorici o pratici: una vera palestra di quel “personale-politico” di cui tanto si parlava in quegli anni. Il fatto poi che l’Orso
non fosse neanche una Comune permise di non scivolare in quella retorica un po’ fricchettona che riduceva tutto in mellassa esistenziale.
Il gruppo di OASK?! era decisamente “aristocratico”, il fatto di sfuggire teoricamente all’aggregazione della politica ormai destinata alla fine gli
permise di farsi una “ragione del pessimismo” (parafrasando Gramsci), creandosi (anche se solo alcuni) gli anticorpi per affrontare gli anni ottanta.
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