Nell’ambito della III edizione della rassegna Teatro e Impegno Civile - ”Le condizioni estreme” - ha inizio, a partire dalla metà di febbraio, il “Progetto Sud”.
Giovedì 15 febbraio 2001 alle ore 17, presso l’Aula Magna di Lettere e Filosofia (Palazzo Nuovo), in collaborazione con Università di Torino, DAMS, Facoltà di Filosofia, CRUT, si svolgerà un incontro dal titolo: “La lingua della violenza. Nuovi rituali, hip hop e delinquenza giovanile” progettato in concomitanza con lo spettacolo “Acido Fenico. Ballata per Mimmo Carunchio camorrista” di Koreja, scritto da Giancarlo de Cataldo (magistrato oltre che scrittore, suo il famoso “Teneri assassini” edito da Einaudi) ed interpretato e cantato dal Sud Sound System, una delle posse più amate dell’hip hop italiano.
All’incontro, introdotto e condotto da Carlo Infante, parteciperanno: Nicola Tranfaglia, preside della Facoltà di lettere e Filosofia della Università di Torino, Eleonora Artesio, assessore alle Politiche giovanili del Comune di Torino, Maria Pia Brunato, assessore alle Politiche giovanili della Provincia di Torino, Alberto Campo, critico musicale (Rumore, La Repubblica), Paolo Ferrari, critico musicale (La Stampa), Pierfrancesco Pacoda, autore di “Hip Hop italiano” (Einaudi) e Salvatore Tramacere, regista dello spettacolo.
Interverranno i Sud Sound System con un brano cantato e “Mimmo Carunchio” (Ippolito Chiarello), il protagonista-malavitoso di “Acido Fenico”. Ospiti della tavola rotonda saranno anche i KKN, band di Belgrado, che si esibirà sul palco del Piccolo Teatro Perempruner nei due giorni seguenti.
L’incontro intende affrontare solo alcune di quelle contraddizioni che investono quei giovani divisi tra ribellione e disadattamento sociale, se non criminalità.
Prendendo spunto dalle vicende messe in scena, in cui un adolescente pugliese diventa delinquente per riscattare la sua povera estrazione sociale, si toccheranno solo alcuni punti del vasto magma che riguarda l’antagonismo giovanile.
Uno di questi punti è quello che tende ad individuare le forme in cui può essere sublimata quella violenza: quei linguaggi, quei rituali, quei comportamenti in cui dare forma ad un’energia informale che può degenerare da un momento all’altro.
La cultura dell’hip hop, che dalla metropoli globalizzata al “barrio” latino, dalla “banlieu” parigina alle spiagge salentine, ha attuato codici e rituali quasi universali, è una di queste forme, netta, ludica e violenta.
Il fatto che un evento teatrale abbia trovato una misura per mettere in scena, al di fuori dei suoi contesti abituali e senza scadere nella banalità spettacolare, quel recitar-cantando hip hop ci offre l’opportunità per confrontarci, perché è intorno al teatro, piuttosto che con la musica, che si può condividere dei pensieri sul mondo che ci circonda e che scivola via senza farci capire cosa sta accadendo.
La lingua della violenza
Nel gioco violento del linguaggio ironico e spiazzante risiede una qualità straordinaria: quella di stimolare consapevolezza, far prendere coscienza, far incazzare e anche informare (la “CNN dei poveri” è stato definito il tam-tam dell’hip hop durante la rivolta di Los Angeles), attivare lo spirito critico senza mai abbandonare la dinamica del gioco, del ritmo, del piacere di partecipare.
E’ un valore che rimette in campo quella domanda di microritualità che ci siamo persi per strada e che nel futuro sempre più digitale potrà, forse, esprimere un’opportunità di compensazione, immettendo nel freddo mediatico il caldo dello scambio d’intensità turbolenta.
L’hip hop, quel recitar-cantando della contemporaneità, riesce ad esprimere queste dinamiche come poche altre forme di comunicazione, arrivando a far fondere insieme linguaggi e comportamenti e anche, straordinariamente, i moti centrifughi delle mode globali e le appartenenze di comunità che danno così voce alla loro dimensione locale.
E’ un dare forma all’informale quindi, trovando quel coefficiente di sensibilità che sappia attingere a quella fonte di energia che i nostri corpi e le nostre menti all’interno della società mediata (non solo dai media ma dai comportamenti inerti e indotti dal senso comune) tende a non utilizzare.
E’ questo il lavoro che oltre che nell’espressione musicale trova luogo in quelle pratiche teatrali che sanno mettere in gioco le energie comunicative. E’ da qui che è possibile ripercorrere una strada che da Artaud (figura di riferimento, con Nietzsche, dell’intero pensiero dell’alterità) ci può condurre a molte di quelle esperienze di un teatro che cerca, nomade, le opportunità dello scambio d’intensità.
Il teatro può espandere infatti quel principio di condivisione che nella vita quotidiana non sempre è facile alimentare: partecipiamo al gioco della rappresentazione creando una visione, e, tendenzialmente, un pensiero, in quanto spettatori che condividono lo stesso spazio-tempo extra-ordinario.
Un’occasione come quella offerta dallo spettacolo “Acido Fenico” può diventare così il detonatore di una problematica insidiosa come quella dell’alterità giovanile, e in particolare il caso limite dell’”educazione sentimentale” di un piccolo malavitoso, per farci riflettere e condividere una riflessione intorno a quei rituali, comportamenti, linguaggi che si misurano con una violenza che va oltre l’aspetto del disagio e della patologia sociale.
Il fatto poi che in quello spettacolo la funzione del coro (secondo il principio fondativo della tragedia greca) venga espressa da una delle posse più rappresentative dell’hip hop italiano, rilancia il gioco, toccando il tasto sul valore di un codice proprio, la voce di una condizione giovanile che possiede delle proprie “lingue” e che nel caso dei Sud Sound System sa coniugare il dialetto salentino delle tradizioni locali con il ragamuffin e i ritmi dub della musicalità tribale globale.
Nel “furore del dire” e nell’uso delle parole come proiettili, reificate, giocate nell’agone musicale è possibile così intravedere una via di salvezza.
Chi ha detto “il rock’n’roll mi ha salvato la vita”?
Il rock, il punk e oggi il rap sanno infatti scandire il tempo della radicalità comportamentale di nuova generazione che sa trattare con la violenza, esorcizzandola, narrandola anche, come in certi canti popolari che sapevano evocare il senso del conflitto tra marginalità sociale e redenzione rivoluzionaria.
Con il tramonto delle ideologie la rabbia e la marginalità rimangono senza sbocco e la violenza rimane “celibe”, fine a se stessa, senza motivo, generata spesso dalla noia, l’apatia inerte, l’estremo non rispetto dell’altro, pericolosissima, incontrollabile.
Parlare della violenza, dare parole nette alle cose più lorde, può servire quindi per porre in luce alcune di quelle zone oscure che in questo modo, cantandole, scrivendole, mettendole in scena, parlandole, navigandole nel web, possono, forse, emanciparsi dal male o perlomeno da quella degenerazione che spesso lo esprime per inerzia.