Cosa dicono i genitori


Lecce 14/5/2003
Ore 21,45
E’ più di un mese che frequento il corso di teatro, per la seconda volta.
Mi è stato chiesto più volte in questo periodo di scrivere qualcosa ma non l’ho fatto, forse perché non è come io me lo aspettavo.
Il momento più bello è stato quando per tre giorni consecutivi noi genitori insegnanti e ragazzi ci siamo uniti tutti nell’aula magna e abbiamo giocato tutti insieme.
E’ stato bellissimo quando Angela ha ballato senza vergogna, spontanea come se lei lo avesse sempre fatto, erano dei semplici movimenti, lei era al centro del cerchio, fatto da noi adulti e bambini, e lei era bellissima mi sono emozionata moltissimo. Dopo Antonio ha detto ad Angela di sedersi a terra, di flettere le ginocchia sul corpo e tenerle con le mani e girare come una palla. Lei lo ha fatto e tutti a battergli le mani. Poi Antonio ha detto di farlo tutti e tutti a farlo. Però Damiano non è riuscito.
E’ stato molto triste e doloroso constatare che lui non riusciva a mettere in sequenza quei semplici movimenti, ecco queste sono le cose che mi fanno tanto soffrire: vedere che lui a volte non riesce a fare determinate cose, cose semplici ma per lui molto difficili, anche se ci prova e riprova.
Ma poi mi consolava il fatto che seguiva con entusiasmo le altre cose che ha fatto, come cantare e partecipare ad altri giochi. Io lo spiavo con lo sguardo, mi accorgevo che anche lui spiava me.
Oggi durante la riunione Beatrice ha chiesto alle insegnanti di chiedere ai ragazzi di scrivere di alcune situazioni che si sono verificate nei laboratori, ma alcune maestre non erano d’accordo perché dicevano che così facendo tolgono ore di lavoro al programma scolastico, e che alcuni genitori si erano già lamentati perché i ragazzi erano indietro rispetto a quello che era stato programmato, ma io mi chiedo: allora perché sia i genitori che gli insegnanti hanno dato il permesso di fare il corso? Non fa anche questo per i ragazzi parte del programma?
Io ho visto che questi ragazzi o bambini hanno preso questa cosa con molta serietà e fanno del loro meglio per riuscirci. Io sono sicura che questi piccoli pur di non rinunciare al teatro, per le altre materie lavorerebbero il doppio, me ne sono resa conto ascoltando i pochi righi che Beatrice ha letto dei loro diari di bordo.
Ricordo che nel 1999, in un precedente laboratorio, nel suo diario un ragazzo scriveva che la madre gli aveva proibito di continuare a frequentare il teatro perché andava male a scuola. Lui aveva sofferto tanto per questa punizione che la prof. aveva telefonato alla madre convincendola a fargli frequentare il laboratorio di teatro, con la promessa da parte del ragazzo che avrebbe studiato di più. E lui ha studiato.
I diari di bordo dei bambini e dei ragazzi mi sorprendono, mi emozionano e mi prendono, sono spontanei, veri.
Io non so cosa si aspettano i genitori da questo corso, io penso che molti dei nostri figli sono cambiati, sono più sicuri, hanno meno paura, e sono diventati anche un po’ più disciplinati e molto più fantasiosi, sì perché nel teatro si viaggia, ma nella fantasia. E’ sorprendente come loro riescono a viaggiare con una poesia, con una filastrocca, come con una parola costruiscono un mondo meraviglioso, come loro vorrebbero che fosse.
Rita




Siamo arrivati alla fine dell’anno scolastico. Sembra ieri quando pieni di ansia e di paura ci siamo affacciati nella nuova scuola. Devo dire che Francesco ha trovato un ambiente più che ottimo, docenti pronti a capire il suo problema e a cercare di integrarlo quanto più possibile. Un’insegnante di sostegno piena di grinta pronta a combattere la guerra di Francesco e a fargli capire che il mondo che lo circonda non fa poi così paura, che deve imparare ad affrontarlo superando le sue paure. Anche a me Beatrice ha insegnato molto, mi ha insegnato a scrivere.
Mi sono ritrovata, sotto sua richiesta, con un foglio bianco e una penna a raccontare su un diario i cambiamenti che notavo in Francy e a scrivere le mie impressioni, a ragionarci sopra e a cercare di capire dove sbaglio e a cercare di correggermi se possibile . Un compito un po’ difficile ma credo che anch’io ce ho fatto qualche passettino avanti insieme con francy, che credo abbia capito che la scuola non è un luogo da combattere ma un luogo dove può trovare tanti amici ai quali appoggiarsi nei suoi momenti di difficoltà.
Poi abbiamo vissuto l’esperienza del teatro e anche se noi genitori non abbiamo potuto partecipare come avremmo voluto, per problemi di lavoro, penso che per Francy sia stata una bella esperienza, anche se all’inizio era stato riluttante ora ci viene volentieri. L’esperienza della gita poi l’ha lasciato entusiasta e a me personalmente ha fatto un piacere enorme vedere come Francy si relaziona con i suoi compagni.
Io spero tanto che la nostra collaborazione porti ancora delle vittorie per Francy, affinché lui possa sentirsi più “normale” possibile. Per il momento io ringrazio voi tutti per l’impegno che ci avete messo e vi dico con sincerità che è stato un bell’anno!
Rita





L’idea che mi ero fatta di questo progetto era quella di condividere con mia figlia un’esperienza di laboratorio teatrale, cercando di sperimentare qualche percorso che fosse centrato su di lei. Volevo ritagliarmi uno spazio d’osservazione privilegiato per vederla agire nel contesto scolastico, circondata dai suoi compagni e insegnanti: un contesto nel quale da genitore non entri mai come osservatore. Questa osservazione doveva, insieme al corso teatrale, costituire per me un nuovo tentativo di approccio educativo verso di lei.
Negli incontri iniziali del progetto mi sforzavo di comunicare il disagio dell’essere genitori, della nostra impreparazione, dell’assenza di “corsi di formazione” per il ruolo di genitore, e come attraverso questo progetto sperassi di trovare qualche indicazione comportamentale, qualche ricetta che mi fosse di aiuto. Le risposte che mi venivano date erano di “improvvisazione” e, devo ammettere, che un po’ tutti gli incontri iniziali erano caratterizzati da una apparente “improvvisazione creativa”. Solo per grandi linee sapevamo che il nostro punto di partenza era un quadro con giochi, tanti giochi con bimbi e questo loro giocare doveva farci da guida nel tentativo di imparare qualcosa su e dai bambini.
“Dobbiamo far finta di non sapere per scoprire con loro” ci fu detto. Purtroppo, come genitore, non ho bisogno di far finta di non sapere, di fatto si brancola nel buio e ci si aggiusta su ogni novità, stimoli differenti, diverse condizioni emozionali reciproche tra genitori e figli, ecc.
Siamo, come genitori, presi da quello che serve ai figli in termini materiali e spesso ci interroghiamo su cosa altro possa servire. Poi mi convinco che è un po’ la casualità che forma i bambini, che agiscono tanti fattori, che bene o male facciamo quello che possiamo.
Nel laboratorio del progetto INDIRE speravo che, dal confronto dialettico con gli altri adulti e con le tecniche alternative proposte, si giungesse sempre alla tanto agognata “ricetta” per la relazione con i figli. Ma era ancora silenzio.
Un giorno entro con mia figlia nell’Aula Magna della Scuola Media Galateo ed eravamo tanti: genitori, alunni, insegnanti, adulti ed operatori. C’era chiasso. Un urlo di Antonio Viganò ed è silenzio.
Ci siamo tutti, tutti dentro la scommessa di fare di questo laboratorio di teatro, un luogo di libertà in cui tutti – bimbi e adulti – “facciamo finta di essere quello che vogliamo”.
Ecco che un bimbo alla volta sceglie un adulto e lo fa entrare nel gioco, l’adulto fa resistenza, il bimbo lo rimprovera. Siamo pari.
Partiamo così con un esercizio di riscaldamento collettivo: ci riscaldiamo utilizzando un bacio che viene lanciato senza entusiasmo, poi acchiappato, riconosciuto, allontanato, recuperato, ringoiato, sollevato in aria, poi introiettato, e poi silenzio, poi un uovo che si rompe in testa e cade addosso e infine acqua per lavarci il viso.
Sono esercizi per riscaldarsi ma anche e, soprattutto, per essere concentrati intorno ad una “scommessa”, quella del gioco dei bimbi che si intreccia con gli adulti. Poi abbiamo cantato, adulti e bimbi, separatamente, poi insieme scambiando i ruoli dal palco a terra e viceversa. Noi eravamo giudicati: grande divertimento dei bambini che trovavano esaltante criticarci, contestarci e finalmente avere l’opportunità di un ruolo ribaltato. Potevano dirci: “Ma fate schifo! Andate a lavorare!”
Infine, in un cerchio, abbiamo finto di essere padri e figli.
Intorno al cerchio guardavo mia figlia, un po’ protagonista ma anche timida, con tanta voglia di avvicinarsi a me. Io ero presa dalla voglia di rilassarmi facendo teatro. Ma, sempre preoccupata di fare qualcosa di utile per me e mia figlia.
Durante un incontro abbiamo idealmente tracciato un asse di equilibrio, poi l’abbiamo percorso e alla fine si doveva gridare un desiderio. “Io vorrei… niente” ho detto, anziché urlare il mio desiderio.
La difficoltà maggiore degli adulti è stata quella di esporsi, mentre i bambini, tranquilli, senza paura di giudizio, – molto meglio di noi – hanno espresso i loro desideri più vari.
Mi sono detta che è inconcepibile per noi adulti toccare l’intimo e poi esporlo davanti al giudizio dell’altro se con l’altro non c’è complicità, condivisione. Ingessati nei nostri ruoli non riuscivamo a smuoverci mentre il teatro ci chiedeva questo. E i bambini col loro sguardo attento hanno subito capito e ci hanno sgridato: “Non ci siete piaciuti, avete detto bugie”.
Un giorno siamo sbarcati ad Itaca e qui gli spazi erano diversi, dilatati. Era difficile far rientrare i bambini nella coscienza di sé, nel ritmo, mentre erano distratti da ruchetta, papaveri, margherite o vialetti da percorrere rapidamente e scale da salire.
Ci era stato illustrato che tutto il percorso del progetto INDIRE era finalizzato ad una grossa scommessa: mettere in scena adulti e bambini che agissero non come personaggi, ma persone che agiscono nel quotidiano. Si è lavorato paritariamente su bimbi e adulti per conseguire una coscienza comune del tempo e del suo ritmo e, poiché non tutti abbiamo gli stessi ritmi, abbiamo cercato, grazie alla guida di operatori sapienti, di “consonare”, suonare insieme tirando dentro anche i più lenti o i velocissimi. Le nostre guide hanno cercato di farci raggiungere una percezione del sé, del nostro corpo che, per ragioni diverse – adulti, disabili e bambini – abbiamo in modo difforme.
Tutti però eravamo pari perché diversi, istruiti allo stesso modo per raggiungere la complessa unicità di uno spettacolo.
L’impressione globale e soprattutto, quasi a conclusione del percorso vissuto insieme, è stata quella di aver visto la scuola animarsi, costituire uno spazio per esprimere (e dare sfogo a) relazioni profonde e difficili in cui i “diversi” come tutti, erano pari, forse trattati con maggiore dolcezza e attenzione. In questo percorso abbiamo confrontato esperienze ed emozioni guidati da bimbi e adulti in ruoli paritariamente intercambiabili.
Questo teatro non è stato un “teatro dell’obbligo”, non un ennesimo compito scolastico da eseguire, ma una scelta libera e creativa in cui, bisogna ammettere, considerati i numeri, i bambini hanno aderito in gran numero e partecipato con costanza.
Ricordo la riunione iniziale dell’interclasse 3E-3F e la polemica sollevata da genitori che vedevano esclusi i loro figli dal progetto INDIRE. I figli, insieme con i genitori, sono stati tutti inseriti nel progetto ma sono risultate limitatissime le adesioni dei genitori della scuola elementare. Quando si è trattato di sollevare polemiche eravamo tutti pronti, per realizzare il progetto ci sono volute rinunce, compromessi e un po’ di fatica; e chi è stato disposto a farlo?
Sicuramente le maestre, forti, tenaci, sensibili e proiettate verso i ragazzi. Un po’ meno i genitori.
Il problema è che un’esperienza di questo tipo richiede e induce a più complesse aspettative nei confronti degli adulti che non sempre sono disposti a farlo.
Questa esperienza non cambia chi la fa, ma anche la scuola che la propone e allora…la scuola sta cambiando?

P.S.
Se potessi aggiungere un pensiero a conclusione dell’esperienza, a fine spettacolo, direi che quest’ultimo, giocato interamente su prospettive spaziali di verticalità (adulto/bambino, educatore/educando) che attraverso un percorso di rapporti paritari si combinavano con l’orizzontalità delle relazioni tra i soggetti coinvolti.
Nel cortile di Itaca, lo spettacolo “Canto per le radici in fiore” si è realizzato attraverso spazi percorsi utilizzati in lunghezza con carillon di persone, giri in bicicletta, viaggi su cuscini, ma anche in verticalità con alberi calati dall’alto e attori che apparivano dalle finestre.
Ho interpretato questo gioco come la metafora di tutto il laboratorio in cui il ruolo di parità si intrecciava con quello intercambiabile di guida e dipendenza tra adulti e bambini.
Il momento finale, in cui il ruolo di marionetta e burattinaio si è fisicamente invertito sulla scena, ha visto i bimbi manovrare gli adulti proprio come durante il lavoro svolto nell’anni scolastico: i bambini rivelavano le nostre carenze e difficoltà nel metterci in gioco e ci aiutavano ad uscirne fuori. Che dire alla fine di tutto? Eravamo diventati una “comunità” fondata sulla condivisione di idee e progetti dopo essere passati attraverso la totale accettazione, anche fisica, dell’altro e delle nostre diversità.
Giovanna

 

 

 


Mia figlia frequentava la IIa media quando tra i diversi laboratori pomeridiani, proposti dalla sua scuola, ha scelto di seguire quello di teatro. Mai, in nessuna occasione, i suoi insegnanti avevano evidenziato le sue difficoltà di “uscire allo scoperto”, di esporsi…
Quando mi dicevano:”…fossero tutti come lei! “ immaginavo sempre mia figlia attenta, brava, garbata e sola. Come madre avrei preferito che mi dicessero che qualche volta disturbava chiacchierando… Paradossale? Certo, cambiando il punto di vista le situazioni si ribaltano.
All’inizio era così anche durante le ore di laboratorio, poi ha cominciato a rilassarsi. Un ambiente in cui non era continuamente sottoposta a giudizio le permetteva sempre più di mostrarsi, di scoprirsi e persino di improvvisare.
Questo era per me un cambiamento forte.
Il secondo anno di laboratorio è stato la naturale continuazione del primo: un’esperienza che accompagnava e sosteneva il suo crescere in un gruppo e in un luogo in cui il mito aggressivo della scuola diventava, per lei, familiare, amico, innocuo. Un luogo per neutralizzare i sospetti e i pregiudizi.
Un gruppo in cui: affidarsi diventava più facile ed imparare appariva meno faticoso…
Mi ricordo la sensazione che ho avuto lasciando per la prima volta mia figlia: ho invidiato l’aria che respirava che non era più la stessa che respiravo io.
Non avevo mai pensato di potermi imbarcare per qualche tratto sulla stessa nave di mia figlia. Di sicuro non in una scuola. Lei era già partita quando io ho iniziato il viaggio…
All’inizio mi sembrava la “nave dei folli” perché non sapevo né come né dove mi avrebbe condotta. Io e gli altri genitori ci guardavamo senza capire né le modalità né la destinazione. Ma eravamo lì. All’inizio per l’egoismo protettivo nei confronti dei nostri bambini, alla fine per aprire un cerchio chiuso verso orizzonti di condivisione che ci appartenevano ogni giorno di più. Ci siamo cercati anche quando l’esperienza all’interno della scuola era ormai terminata. Eh.
E’ difficile costruire minando fondamenta di strutture già sedimentate, eppure abbiamo costruito. E’ difficile, in una scuola, avere, tutte le volte, il desiderio di incontrarsi, di dare e di prendere, di appartenere a quel gruppo, in quel luogo. Eppure è stato così. Per ognuno. Ogni volta.
E la parola integrazione cominciava a significare altro.
Integrazione è stato “profanare” gli incontri scuola-famiglia asettici, standardizzati e spesso vuoti.
Integrazione è stato lo scambio sostanziale e l’accoglimento di esperienze isolate e quasi sempre emarginate.
Integrazione è stato per me respirare la vita che respirava mia figlia e decidere di accordarle più fiducia tornando più serena alla mia.
Lei ora frequenta il secondo anno delle superiori e continua a fare teatro, continua a crescere e va sempre più lontano.
Conserviamo, complici, un rapporto forte, che tra momenti di incontro ed altri di allontanamento, assume sempre meno i contorni della dipendenza.
Così la mia esperienza al “Galateo” è partita dal personale, ma poi io ho continuato anche quest’anno.
Questa volta solo per me, anche come insegnante.
Sono insegnante di francese in un liceo ed ho incontrato, durante questo percorso che si è sviluppato nel Laboratorio teatrale in questi anni, oltre alle molte sollecitazioni, soprattutto la concreta possibilità di legittimare intuizioni in cui mi sembrava di osare troppo…
A volte avevo voglia di “trasgredire” certe convenzioni formali che appesantivano il mio modo di insegnare, ma ho azzardato raramente proposte che deragliavano, anche se, dalle risposte dei miei studenti, mi arrivavano allettanti conferme.
E anche qui si trattava di integrazione. Tra professione e personalità. E ora, ditemi, se non serve il teatro…
(Da Antonio Vigano) ho appreso la consapevolezza dei miei gesti, i disegni del mio corpo nello spazio. E questa consapevolezza impregna di emozioni le parole di una poesia letta in classe. Scopro i miei studenti sorpresi, curiosi, concentrati ed emozionati a loro volta. Hanno dimenticato di essere a scuola! In questo caso non abbiamo materialmente destrutturato uno spazio fisico ( abbiamo fatto anche questa piacevole e proficua esperienza!), ma ne abbiamo creato uno mentale, personale, in cui la “fame” di ognuno è venuta fuori. Perché la fame di sapere, di esprimere, di comunicare, l’hanno anche i nostri studenti, tanto per non metterci sempre dall’altra parte della barricata.
Tra le funzioni della comunicazione quella del piacere spesso viene dimenticata. Invece nella scuola è indispensabile non solo per gli alunni, ma anche per gli insegnanti che, come gli attori, non riescono a trasmettere senza prima sentire autenticamente.
(Da Gino Santoro) ho appreso il “contropelo”. Il coraggio necessario per l’attraversamento ed il superamento dello stereotipo. Mi viene in mente ogni volta che ho paura di osare o al contrario di mostrarmi incerta…
La scuola costringe a nascondere le proprie incertezze. E questa è una fatica che ci porta lontano da noi stessi. Anche i ragazzi, per esempio, impegnando le loro energie per “copiare”, cercano il modo migliore per fingere di sapere.
Valutazione oggi mi appare una parola violenta. Siamo sotto giudizio, sottoponiamo a giudizio, somministriamo prove che ci allontanano dai ragazzi costringendoli alle barricate dell’apparire: pronti, bravi, all’altezza del compito. Quanto lontani da se stessi? E da noi?
Come persona-insegnante ho provato a mostrare i miei limiti e mi sono sorpresa a trasmettere questo “messaggio”:

vi autorizzo a denunciare il vostro non-sapere, le vostre incapacità;
e vi autorizzo anche con l’espressione delle mie incertezze.

Detto tra noi: le incertezze degli insegnanti possono poggiare solo su forti competenze e su un’altrettanto forte autodisciplina. Altrimenti non possiamo toglierci le maschere.
E togliendo, lavoriamo su ciò che è vero, come a teatro.
(Da Eugenio Barba) ho appreso che come il teatro, la scuola è l’arte delle relazioni umane.
Come il “teatro etico”, la scuola ha regole rigorose che non si possono infrangere senza pagare il prezzo molto caro della passività dello “spettatore”. La scuola come il teatro può diventare un’isola di libertà in cui devi piantare e zappare per avere frutti. Come il lavoro nel teatro, quello nella scuola è un lavoro di artigianato anonimo in cui si possono disarcionare le certezze di avere un destino indipendente da sé.
E per farlo, non abbiamo forse bisogno anche di una piccola “nave d(e)i folli” per traghettare la scuola verso una dimensione più felice?
Danila