Il cacciatore e la preda

Sono ormai circa tre mesi che mi interrogo: su di me, su Francesco, sulle relazioni che lui va stabilendo con me, con i suoi coetanei, con gli insegnanti, sulle relazioni che io, i compagni, gli adulti andiamo intessendo con lui.

Le informazioni fornite dalla diagnosi medica e da quella funzionale non mi sono di nessun aiuto. Al contrario, potrebbero farmi imboccare una strada che nulla ha a che vedere con il mio compito di insegnante.

Sono fortemente convinta che se nel rapporto terapeutico con i professionisti della riabilitazione il ragazzo disabile viene inscritto all'interno di un sistema di pratiche e di discorsi incentrati sui suoi deficit psicomotori, nel rapporto didattico, proprio delle strutture scolastiche, deve essere inserito in pratiche e discorsi inerenti le sue abilità e il suo vissuto, fatto di esperienze e relazioni.

Ho cercato, pertanto, di orientare la mia osservazione in direzione dell’individuazione delle risorse, delle abilità e delle conoscenze di Francesco, ho cercato, soprattutto, di capire la sua ‘storia’, le esperienze di cui è "portatore", le relazioni che quotidianamente stabilisce, le strategie di conoscenza e di comunicazione con il mondo che mette in atto, ben consapevole che la mia è solo una possibile lettura e che come tale va continuamente verificata e confrontata. Ben consapevole che sempre nel momento in cui si osserva si è anche osservati!

Tra poco faremo la guerra

E’ bellissima la guerra

E’ tanto bella

Per sempre

I bambini sono sconosciuti

Francesco si sente sempre in guerra, pronto a combattere, alla ricerca costante di una via d’uscita.

L’8 gennaio, dopo uno scontro molto forte con la prof. di italiano che gli tiene testa e lo invita a non dire parolacce, a comportarsi come gli altri, invece di scrivere come un pappagallo inutili elenchi (dei nomi dei compagni, dei piloti di Formula uno, dei personaggi di cartoni animati…), lui farfuglia, tra altre parole per me incomprensibili:

Combattiamo tutti per trovare una via d’uscita.

Ho avuto paura di essere bravo.

Tu non hai capito niente.

Ce la devo fare! continua a ripetere, più perché sa che questa è l’attesa delle persone che gli stanno attorno e che gli sono care, che per reale convinzione, testimoniando con ciò di aver introiettato la condizione di malato che gli rimandano costantemente le relazioni predominanti e significative, ed in questa condizione si sente garantito e privilegiato. Tenta continuamente di gestire le relazioni con gli altri partendo da una situazione di sicurezza del tipo: "Avete detto che sono malato. E’ vero, e perciò non potete chiedermi le stesse prestazioni che chiedereste ad uno normale!".

Non lo so

Non lo capisco

Non so parlare

E non so studiare

So alzare la voce

So tante cose

Però da imparare

Io non me lo ricordo più

Io sono stanco

I momenti migliori per stabilire con lui una relazione di scambio e di comunicazione sono quelli non formalizzati all’interno del Laboratorio, oppure gli incontri "a due", che però lui evita accuratamente e con ogni mezzo. In questi casi la sua disponibilità ad ascoltare, a raccontare e a tradurre i pensieri e le esperienze in discorsi e scritture aumenta, costretta dalla situazione che altri hanno creato per lui e a cui lui non ha saputo/voluto rispondere in maniera efficace; anche le sue prestazioni migliorano notevolmente.

La relazione formale di classe è per lui come un Giano bifronte: se da una parte gli garantisce la possibilità di avere il modello di normalità degli altri, dall’altro consente a lui di offrirsi come modello di anormalità agli altri. Ciò gli permette di rifugiarsi nel rifiuto della prestazione, nei confronti della quale non si sente all’altezza.

Con il passar del tempo sembra essersi rintanato sempre di più nell’aula, esattamente come fa a casa (secondo il racconto della madre). Rifiuta ogni occasione che gli si offre di uscire da essa, se non per andare in bagno oppure con i compagni in palestra o nell’Aula Magna per l’attività di Laboratorio. Sembra davvero aver individuato nello spazio aula la sua tana.

Si tratta di una tana nella cui costruzione lui ha investito notevoli energie e per difendere la quale è disposto a combattere con ogni mezzo e in ogni modo e a mettere in atto strategie sofisticatissime che oscillano dall’aggressività, sia verbale che fisica, all’auto aggressività, dall’isolamento totale alle ecolalie linguistiche, una sorta di grammelot, sempre accompagnato da un sorriso beffardo, che interrompe di netto e definitivamente ogni possibilità ulteriore di comunicazione.

Gli altri, ma soprattutto l’insegnante di sostegno, la più feroce, sono da lui percepiti come dei cacciatori che vogliono stanare la preda e perciò si fa lui stesso cacciatore.

Ed è forse in questo gioco continuo che mi sembra di poter individuare una sorta di metafora guida per il mio lavoro. L’astuzia del cacciatore (o della volpe) e la polimorfia del polipo, per dirla con Detienne e Vernant, sembrano guidare i comportamenti e le scelte di Francesco.

Francesco, in un mondo che lui vive come profondamente ostile e sempre oscillante, mutevole e imprevedibile, e perciò non dominabile e fonte di angoscia, non può far altro che mostrarsi egli stesso ancora più molteplice, mobile e imprevedibile e perciò in grado di affrontare l’imprevisto. Bisogna allora "procedere per vie traverse, rendere la propria intelligenza così elastica e ritorta da poterla piegare in tutti i sensi, rendere la propria andatura così ‘curva’ da aprirsi contemporaneamente in tutte le direzioni."

Il ricorso alla metis, una forma particolare di intelligenza, un’accorta prudenza, secondo gli antichi filosofi greci, sembra costituire per Francesco l’unica arma in grado di procurargli, in ogni circostanza, il successo e il controllo del mondo, che gli è nemico.

Mi sembra che Francesco non voglia uscire dalla sua tana, che è il suo mondo. Si difende, con i suoi mezzi e con le sue armi, perché ha paura… e un essere che ha paura è disposto a tutto!

Mi convinco sempre più che la strategia in grado di ottenere i migliori risultati sia, al momento, quella di fare ricorso, anche io, alle armi dell’astuzia e della polimorfia, piuttosto che alle armi della forza.

Credo che lo spazio (protetto) del Laboratorio sia l’unico spazio possibile per mettere in scena il gioco del cacciatore e della preda.