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Fra
programmazione e improvvisazione
La Scuola
italiana ha fatto fatica, negli ultimi decenni, a passare dalla cultura
dello “svolgimento del programma” ad una cultura della progettualità
e della programmazione. L’identificazione della lezione con la trasmissione
del sapere, e del profitto dell’alunno con il possesso di conoscenze,
ha consentito a lungo, agli insegnanti, di “improvvisare”
le proprie lezioni sulla base del proprio sapere disciplinare, del proprio
intuito comunicativo e didattico, o, in mancanza di questi, sulla base
del proprio manuale…
La successiva pratica della definizione di obiettivi e risultati attesi
ha via via ridotto le improvvisazioni ed ha promosso attività sempre
più pensate, costruite, mirate. La nascita del POF e il bisogno
di caratterizzazione degli Istituti ha ulteriormente vincolato le pratiche
programmatorie, poiché ha indotto il passaggio da una dimensione
individuale del lavoro progettuale e didattico ad una dimensione d’Istituto.
I principi di tali trasformazioni erano, e sono, molto importanti e condivisibili
(quello della intenzionalità e della verificabilità dell’intervento
didattico, quello della omogeneità dell’offerta all’interno
di uno stesso Istituto). E’ accaduto però che tali principi,
tradotti in pratica e interpretati all’interno di schemi culturali
non sempre flessibili, hanno spesso prodotto inaccettabili rigidità:
la gabbia dello svolgimento del programma è stata sostituita dalla
gabbia degli obiettivi programmati e poi ancora dalla gabbia degli standard
attesi d’Istituto.
Nel nostro percorso è emerso chiaramente il conflitto fra due culture
diverse: quella del teatro di partecipazione, che vede nell’improvvisazione
il suo punto di forza fondamentale, un essenziale strumento di ricerca,
di soluzione di problemi, di espressione individuale, e quella della scuola,
che si ritrova ansiosa se privata di un risultato chiaro da perseguire,
insicura di fronte all’imprevedibile, smarrita nella “trasgressione”
di un insegnamento poco disciplinare, poco programmabile, poco verificabile.
Una scuola che punti alla partecipazione e all’integrazione deve
conoscere e definire le sue mete, ma deve saperle raggiungere attraverso
percorsi molteplici, deve saper superare ostacoli imprevisti, ma anche
sapersi concedere imprevisti slarghi e soste, se queste rispondono ai
bisogni insorgenti.
Una scuola dove gli alunni stanno ad ascoltare ognuno nel suo banco è
più facile di una scuola dove gli alunni partecipano e partecipano
insieme tutti. Se, oltre a saper programmare, non so anche improvvisare,
non posso fare una scuola partecipata.
Flessibilità significa anche questo: il bravo insegnante sa che
l’improvvisazione è pericolosa se manca di una base progettuale
e di un sistema di obiettivi cui mirare, ma sa anche che la programmazione
diventa una gabbia se è rigida e vincolante, se preclude gli spazi
d’improvvisazione che derivano dalla capacità di “cogliere
l’attimo”, dalla voglia di rispondere al problema che nasce,
dall’idea maturata in corsa, dalla provocazione di una domanda che
non ha natura disciplinare ma che è un investimento trasversale,
da un’osservazione che non ha una centratura cognitiva, ma apre
orizzonti educativi.
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