Una comunità La nostra attenzione era rivolta alla “partecipazione vissuta”, cioè al problema del saper essere persona al di là del ruolo, e all’”interagisce”, cioè al problema delle carenti relazioni tra i soggetti che influiscono sui processi. L’esistenza della “comunità” , nella nostra ipotesi, era data per scontata. Oggi, al termine del progetto, scopriamo che il nodo centrale del problema dell’integrazione è proprio l’assenza di “comunità”. Senza addentrarci in analisi storiche, sociologiche, antropologiche, del termine comunità, intendiamo con tale termine riferirci a qualsiasi unità sociale al cui interno le relazioni siano fondate su un modo di sentire comune, reciproco, associativo, che vede prevalere l’affettività sulla neutralità affettiva, l’orientamento verso la collettività sull’orientamento verso l’io, l’ottica del particolare e del personale sull’ottica dell’universale e dello standard; qualsiasi unità sociale in cui le soggettività siano riconosciute nelle loro specifiche differenze e dignità (posizioni e ruoli sociali, età, sesso, qualità personali), e le cui interazioni abbiano i caratteri della reciprocità, della fiducia, della identità. Se una comunità è qualcosa di simile a quello che abbiamo indicato in estrema sintesi, la comunità è il luogo dell’integrazione, la sua condizione di realizzabilità. Ma se la sociologia c’insegna il concetto di comunità, c’insegna anche che oggi, nella società contemporanea, le relazioni interpersonali vanno diventando sempre più razionali e lontane da quelle costitutive di “comunità”: gli uomini, c’insegnano gli studi sociologici, vivono oggi e abitano pacificamente l’uno accanto all’altro, ma sono sostanzialmente separati e non c’è niente che li leghi; tale condizione è proprio inversa a quella che caratterizza la vita di comunità, nella quale invece i soggetti rimangono legati nonostante le differenze e le separazioni. Queste riflessioni pongono ovviamente un grosso problema: se lo spazio dell’integrazione è la vita di comunità, quale è l’integrazione possibile in una scuola che non è comunità, ed anzi le assomiglia sempre meno, in una città che non è comunità, ed anzi le assomiglia sempre meno, e in una famiglia che sempre più spesso perde anch’essa i caratteri della comunità? Diventa dunque interessante rilevare che l’integrazione dei disabili è posto come obiettivo sociale e scolastico rilevante, ai diversi livelli istituzionali, ma ciò accade in una società e in una scuola in cui le condizioni di vita sembrano muoversi in direzione opposta a quella che richiederebbe l’integrazione, in una società e in una scuola in cui l’integrazione mancata sembra essere problema crescente di tutti e di ciascuno. A noi che poco incidiamo sulle macrotrasformazioni sociali, ma che forte avvertiamo la responsabilità delle nostre funzioni, sembra di poter affermare, al termine dei nostri ragionamenti, che la qualità dell’integrazione scolastica (dei disabili, dei folli, dei diversi, ma anche dei normali, degli eccellenti), migliorerà nella misura in cui la scuola saprà recuperare i tratti della comunità, costruendo al suo interno e nel rapporto con l’esterno un sentire comune in soggetti diversi, costruendo tessuti di relazioni fra persone più che fra ruoli, e fondate sulla fiducia più che sulla rivendicazione, costruendo condivisione di scopi più che competizioni , consentendo la costruzione di identità diverse di pari dignità.
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