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Come eravamo prima di cominciare
“Nessun apprendimento evita il viaggio. Sotto la direzione
di una guida, l’educazione spinge all’esterno. Parti: esci. Esci dal ventre
della madre, dalla culla, dall’ombra che scende dalla casa del padre e
dai paesaggi giovanili. Al vento, alla pioggia: fuori mancano i ripari.
(…) Apprendere dà inizio all’erranza.” Michel Serres 1992
Con questa citazione introducevo, nell’ottobre 2002, le
attività di formazione che il Gruppo Teatro si avviava a intraprendere.
All’inizio di un percorso che si prevedeva “forte” sul piano emotivo per
molti insegnanti, voleva essere un invito a riflettere sulla dimensione
globale ed esistenziale dell’apprendere.
Volevo “avvertire” gli insegnanti del rischio cui andavano incontro con
un lavoro di ricerca e di sperimentazione che li avrebbe coinvolti in
maniera profonda, nella loro interezza non solo professionale, ma personale.
Rischio di cambiare dentro, di scoprirsi, di denudarsi, e di dovere poi
cercare nuovi assetti dell’essere insegnante.
Come responsabile del progetto, in quella mia introduzione chiedevo, agli
insegnanti, di essere “attori” non solo del teatro che si apprestavano
a realizzare, ma di essere attori globali di tutto il percorso di ricerca.
Introducevo, illustrando l’ipotesi del nostro progetto, il concetto di
persona implicito nell’idea di partecipazione vissuta presente nella stessa
ipotesi, e lo utilizzavo per esprimere la personale convinzione che l’integrazione
scolastica è efficace lì dove interagiscano “persone intere”. Sostenevo
che stimoli cognitivi di pari qualità producono effetti cognitivi di grande
disparità dove manchino le condizioni per una qualità di vissuti relazionali
e affettivi (partecipazione vissuta) fra persone. Proponevo una breve
analisi sullo stato dell’integrazione scolastica oggi, e sostenevo la
convinzione che l’integrazione scolastica ha – e non da oggi - notevole
spazio istituzionale e normativo, ma nonostante ciò, resta spesso un processo
che coinvolge – e in parte – solo una parte dei soggetti che ne hanno
responsabilità istituzionale; sostenevo che dell’arco temporale in cui
l’alunno con handicap è a scuola, solo una parte è, se pure lo è, produttiva
di crescita per la sua persona e per il gruppo; che persiste, nonostante
gli interventi normativi e formativi, la vecchia tendenza di molti docenti
curricolari a ritenere il docente di sostegno come il fondamentale responsabile
dell’alunno con handicap, e la vecchia tendenza del docente di sostegno
a ritenersi “proprietario” dell’alunno con handicap; sostenevo che gli
interventi educativi e didattici sull’alunno con handicap e sul suo gruppo
classe sono molto spesso interventi goal free, non mirati al raggiungimento
di obiettivi formativi ragionevolmente formulati in rapporto a un’analisi
reale del contesto, né sostenuti da scelte strategiche competenti, intenzionali,
globali; che ancora troppo spesso gli interventi sulle classi che includono
alunni con handicap sono caratterizzati da molecolarità e occasionalità,
se non anche da conflittualità degli stimoli e delle valutazioni; che
la presenza di un alunno con handicap ancora produce, e spesso, in compagni
e docenti, vissuti di disagio che, consapevolmente o inconsapevolmente
vissuti, non solo non facilitano, ma inibiscono i processi d’integrazione.
Rilevavo infine, e con preoccupazione, l’insorgere di fenomeni che un
osservatorio come quello di una Presidenza consente di cogliere, e che,
nonostante le ricorrenti enunciazioni di principio a tutti i livelli della
vita scolastica, non giocano certo a favore dell’integrazione: da un lato
osserviamo l’incremento di complessità delle istituzioni scolastiche e
l’aumento numerico dei bambini e ragazzi con problemi cognitivi, sociali,
comportamentali, e tali fenomeni sono un portato dei cambiamenti sociali
e istituzionali e del tipo di sviluppo che la nostra società ha scelto.
Le modifiche del sistema scolastico e i mutamenti delle caratteristiche
dei destinatari richiederebbero, permanendo gli obiettivi formativi e
sociali dell’integrazione e della scuola per tutti, un aumento qualitativo
e quantitativo delle risorse professionali e finanziarie: occorrerebbero
cioè non solo più soldi, ma più insegnanti e più bravi, per consentire
interventi più mirati e consapevoli. Al contrario, si assiste progressivamente
ad una riduzione sia delle risorse finanziarie che degli organici, e ad
un preoccupante impoverimento qualitativo degli insegnanti (in termini
di motivazione professionale e sociale e di patrimoni culturali). La mole
di problemi irrisolti dunque, ed una crescente cultura sociale dell’interesse
privato più che pubblico, trova da un lato genitori sempre più interessati
al raggiungimento, per il proprio figlio, di obiettivi formativi di tipo
pragmatico e pragmaticamente spendibili, e dall’altro docenti sempre più
stanchi e bisognosi di semplificazione dei problemi, quindi sempre più
interessati al raggiungimento degli standard cognitivi richiesti a livello
nazionale e, conseguentemente, alla “tutela” dei diritti dei “normali”.
L’interagire di tali fenomeni sembra produrre dunque, negli ultimissimi
anni, atteggiamenti che sembravano superati, e che palesano invece, in
forme nuove e “moderne”, vecchi meccanismi espulsivi nei confronti dei
più deboli. Rischia d’esser vanificato il percorso di crescita che la
Scuola pubblica, relativamente al problema dell’integrazione, ha compiuto
negli ultimi decenni, grazie alla normativa avanzata ed alla sensibilità
sociale e culturale di tanti insegnanti e professionisti del settore.
In tale quadro, riflettevo sulla necessità, raccolta dal nostro progetto,
di lavorare sulle condizioni di un’integrazione efficace nella scuola
di oggi. E proponevo di guardare al teatro e alla libera espressione,
strategie da noi adottate per la verifica della nostra ipotesi, non come
“attività integrative” ed extracurricolari, ma come modalità d’espressione
di un gruppo, capace di promuovere le dinamiche intrapersonali e interpersonali
che sole possono innescare processi di vera integrazione.
Proponevo di provare a mettere a fuoco la struttura profonda, l’anima,
del fare teatro, per individuarne gli elementi trasferibili al fare storia,
al fare matematica, la fare scuola. In quella introduzione auguravo, agli
insegnanti, un percorso capace di smascherare i modi del fare scuola e
del vivere i ruoli, capace di focalizzare, in ciascun docente, quello
scarto tra ruolo e persona che è il terreno dove attecchisce l’integrazione
mancata.
La riuscita del nostro progetto, dicevo agli insegnanti, dipenderà da
quanto voi saprete entrare in situazione, da quanto saprete esercitare,
individualmente e in gruppo, nelle diverse fasi della formazione e dell’attività
didattica, il vostro pensiero riflessivo su voi stessi, da quanto saprete
scoprire analogie e differenze con situazioni scolastiche altre.
Secondo voi, insegnanti e alunni hanno difficoltà,
nella scuola, ad “essere persone”?
Nella stessa sera, proponevo la compilazione di un questionario d’ingresso
che intendeva verificare, tra l’altro, le loro idee sull’”essere persona”
a scuola. Che intendeva cioè conoscere i livelli di problematizzazione
esistenti, all’inizio del percorso, sul rapporto tra ruolo e persona negli
insegnanti e negli alunni. Su 30 insegnanti presenti, 16 dichiaravano
che molti insegnanti hanno difficoltà “ad essere persona” con gli alunni,
9 dichiaravano che pochi insegnanti hanno tale difficoltà, e 5 insegnanti
non rispondevano alla domanda.
Dalle domande a risposta aperta, emergevano, quali comportamenti caratterizzanti
l’insegnante che “non riesce ad essere persona” con gli alunni, le seguenti
voci: irrigidito nel ruolo (atteggiamento segnalato 9 volte); non dialogico
(segnalato 6 volte); indifferente (2 volte); burocratico-formale (1 volta);
non comunica emozioni (1 volta); distaccato (1 volta).
L’insegnante che non “riesce ad essere persona” con i colleghi viene invece
indicato con i seguenti atteggiamenti: paura del confronto (8 volte);
insicurezza (5 volte); non si mette in discussione (2 volte); diffidente
(2 volte); si vive come incompetente rispetto al compito (1 volta); vive
il proprio ruolo in modo stereotipato (1 volta); ipocrisia (1 volta),
chiusura (1 volta). Analoghe domande richiedevano la rilevazione dei comportamenti
degli alunni che “non riescono ad essere persona” con i compagni e con
gli insegnanti.
Sono stati rilevati, relativamente agli alunni, i seguenti indicatori
di difficoltà ad “essere persona” con i compagni: si isola (12 volte);
è indisponibile al dialogo (9 volte); ha scarsa autostima (3 volte); si
sente incompreso, emarginato (3 volte); non si esprime liberamente (1
volta); non accetta i diversi ! volta).
Relativamente alla difficoltà ad essere persona con gli insegnanti compaiono
i seguenti indicatori: ha paura di sbagliare, di essere giudicato (4 volte);
non esprime se steso (3 volte); assume atteggiamenti captativi (1 volta);
è passivo di fronte alle situazioni (1 volta); è chiuso (1 volta); è bugiardo
(1 volta); è ansioso (1 volta). Le voci riportate sono, ad avviso di chi
scrive, significative di un’assenza di problematizzazione specifica.
Le voci riportate, infatti, e selezionate col criterio della congruenza
rispetto alla richiesta, si ritrovano, nelle risposte date dai docenti,
mescolate con moltissime altre voci che non hanno nessuna relazione con
la domanda posta, e che dimostrano la mancata comprensione del senso della
richiesta.
Le domande che ponevamo volevano significare: quanto gli
insegnanti vivono il ruolo professionale lasciando che questo prevarichi
la propria persona? E quanto questo determina negli alunni un vissuto
di sé come “ruolo-alunno”, complementare a quello del “ruolo-insegnante”
e da questo determinato?
La lettura delle risposte, faceva emergere, come poc’anzi rilevato, una
modesta sensibilità (o non ancora esplicita) al problema proposto.
Il viaggio non era ancora incominciato.
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