La lingua della violenza

"Sud, non ti fare castrare dal potere criminale che ti vuole fermare...guastagli la festa, abbassagli la cresta, guarda la sua testa rotolare nella cesta. Libera la mente da ogni assurdo pregiudizio che da secoli ti domina, ti ingoia e ti rivomita, potere di quei demoni che noi chiamiamo uomini, che uccidono altri uomini, che sfruttano noi giovani, che tagliano le ali agli angeli più deboli. (...) Alpi, Salento, un solo movimento: pugni sul sistema pretendiamo un cambiamento, ridateci la terra, basta con la guerra. Dalla strada l’intifada... you gotta fight da faida!"
Frammenti di una delle bandiere dell’Hip Hop italiano, raccolti nell’omonimo libro di Pierfrancesco Pacoda; parole come "proiettili" come rivendica un altro gruppo-chiave di questo movimento, Assalti Frontali.
In quelle parole (del 1992, una vita fa) di Frankie Hi nrg, c’è ancora l’energia vitale di un mondo che canta e lotta, traduce la violenza di un antagonismo etico in un linguaggio che si fa comprendere intensamente dai "pari" e lascia fuori gli altri. Diventa così lingua di comunità, di quell’enclave che si ritaglia gli spazi, non solo nelle metropoli ma anche, fondamentalmente, in quelle province del sud dove non ti viene dato nulla, per cui diventa non solo legittimo ma evolutivo, prenderselo quello spazio, per liberarlo. E’ in questa particolare nuova coscienza di aggregazione, decisamente post-politica, anche se gli anni novanta hanno visto il proliferare dei CSOA (Centri Sociali Occupati Autogestiti) che in qualche modo hanno reinventato in altre forme dei comportamenti antagonisti, che c’è da cogliere il principio attivo dell’hip hop che m’interessa.
Un aspetto è quello che riguarda il valore di una "comunicazione indignata" come si definì uno dei primi segnali di questo movimento, "Radiogladio" di Sergio Messina, magistrale audiomaker che già negli anni ottanta, dalle frequenze di Audiobox (la zona franca di Radiouno in RAI), lanciava ironici strali sonori contro il senso comune.
Nel gioco violento del linguaggio ironico e spiazzante risiede una qualità straordinaria: quella di stimolare consapevolezza, far prendere coscienza, far incazzare, informare (la "CNN dei poveri" è stato definito il tam-tam dell’hip hop durante la rivolta di Los Angeles), attivare lo spirito critico senza mai abbandonare la dinamica del gioco, del ritmo, del piacere di partecipare.
L’altro è il valore che rimette in campo quella domanda di microritualità che ci siamo persi per strada e che nel futuro sempre più digitale potrà, forse, esprimere un’opportunità di compensazione, immettendo nel freddo mediatico il caldo dello scambio d’intensità turbolenta.

 

L’alterità come risorsa vitale

In un mondo senza riti ci ritroviamo in balia di pulsioni che buona educazione, repressione, bon ton e regolamenti non possono controllare.
Dimentichiamo la nostra matrice filogenetica affidandoci ad una dimensione culturale, psicologica e sovrastrutturata, che spesso si esprime attraverso forme inautentiche d’interrelazione. "Non è l’educazione che ci programma al bene", suggerisce Irenaus Eibl-Eibesfeldt in "Amore e odio", straordinaria analisi sull’aggressività e la socialità negli uomini e negli animali, affermando quindi che l’essenza del bene non deriva da un’impostazione culturale astratta, basata cioè su comportamenti indotti e innaturali.
E’ un ragionamento che ci può essere quantomeno utile per riconsiderare l’importanza di quei "nuovi rituali" che emergono ciclicamente in una condizione giovanile tesa ad inventare altri codici, altre lingue, altre forme di socialità: forme diverse e spesso antagoniste rispetto ai modelli vigenti di socialità.
In alcuni "meccanismi sociativi, continua Eibl-Eibesfeldt, ci sono gli antagonisti naturali dell’aggressività, meccanismi su cui possiamo fondare le nostre speranze di un futuro di maggiore concordia". E’ da questo segnale d’ottimismo che credo si possa individuare la pista da seguire attraverso quelle espressioni di alterità che tra hip hop, techno-rave ed altri neo-dionisismi, fanno intravedere nel tribalismo post-metropolitano una tensione evolutiva e non distruttiva come pensano alcuni.
Certo, il no-future gridato dal punk e dai movimenti rivoluzionari sconfitti, ha lasciato una deriva di pessimismi irragionevoli e nichilisti, una scia che, particolarmente in Italia, dopo il Movimento del 1977 ha pervaso d’amarezza una generazione. E’ necessario però andare oltre, misurandoci con la potenziale capacità di tradurre in risorsa vitale l’alterità.
Fin quando esisteva ancora una tensione rivoluzionaria, sostenuta o meno da un’ideologia, tutto ciò accadeva anche spontaneamente, i cortei, gli slogan, i volantini, le azioni esemplari... Linguaggi e comportamenti che giocavano con gli assetti della cultura dominante, demistificandola, inventando opportunità di nuova comunicazione che in alcuni casi evocavano elementi delle avanguardie, come quelle dada e futuriste.
Oggi tutto questo non è più, altre forme aggregative sono nate, esprimono spesso la stessa energia antagonista ma vagano nel deserto dei valori prodotto dall’accelerazione dei tempi e dei modi, soggette al rischio della degenerazione violenta e dissipatoria.
E’ per questo che è importante individuare quei linguaggi che all’interno dell’aggregazione giovanile danno forma all’informale domanda di mondo che viene gridata anche con rabbia. L’hip hop è uno di questi codici, come per altri versi può essere la techno che nell’esaltazione dei battiti della ritmicità elettronica si coniuga con quelli del corpo in azione nelle indeterminate ritualità della trance post-metropolitana.
Per molti è solo rumore, tribalità postmoderna, ma il valore c’è, va solo trovato, o perlomeno cercato.

 

Il furore del dire

Dare forma all’informale quindi, trovando quel coefficente di sensibilità che sappia attingere a quella fonte di energia che i nostri corpi e le nostre menti all’interno della società mediata (non solo dai media ma dai comportamenti inerti e indotti dal senso comune) tende a non utilizzare.
E’ questo il lavoro che oltre che nell’espressione musicale trova luogo in quelle pratiche teatrali che sanno mettere in gioco le energie comunicative. E’ da qui che è possibile ripercorrere una strada che da Artaud, figura di riferimento, con Nietzsche, dell’intero pensiero dell’alterità, ci può condurre a molte di quelle esperienze di un teatro che cerca, nomade, le opportunità dello scambio d’intensità.
Il teatro può espandere infatti quel principio di condivisione che nella vita quotidiana non sempre è facile alimentare: partecipiamo al gioco della rappresentazione creando una visione, e, tendenzialmente, un pensiero, in quanto spettatori che condividono lo stesso spazio-tempo extra-ordinario.
Per arrivare al punto, tra i tanti altri punti che potrebbero essere individuati (secondo una geografia del teatro di ricerca che, si spera, non finirà mai di ridefinire i propri confini) focalizzo ora l’esperienza che ha generato queste riflessioni.
Un’occasione come quella offerta dallo spettacolo "Acido Fenico" può diventare così il detonatore di una problematica insidiosa come quella dell’alterità giovanile, e in particolare il caso limite dell’"educazione sentimentale" di un piccolo malavitoso, per farci riflettere e condividere una riflessione intorno a quei rituali, comportamenti, linguaggi che si misurano con una violenza che va oltre l’aspetto del disagio e della patologia sociale.
Il fatto poi che in quello spettacolo la funzione del coro venga espressa da una delle "posse" più rappresentative dell’hip hop italiano, rilancia il gioco, toccando il tasto sul valore di un codice proprio, la voce di una condizione giovanile che possiede delle proprie "lingue" e che nel caso dei Sud Sound System sa coniugare il dialetto salentino delle tradizioni locali con il ragamuffin e i ritmi dub della musicalità tribale globale.
Nel "furore del dire" e nell’uso delle parole come proiettili, reificate, giocate nell’agone musicale è possibile così intravedere una via di salvezza.
Chi ha detto "il rock’n roll m’ha salvato la vita"?
Il rock, il punk e oggi il rap sanno infatti scandire il tempo della radicalità comportamentale di nuova generazione che sa trattare con la violenza, esorcizzandola, narrandola anche, come in certi canti popolari che sapevano evocare il senso del conflitto tra marginalità sociale e redenzione rivoluzionaria.
Con il tramonto delle ideologie la rabbia e la marginalità rimangono senza sbocco e la violenza rimane "celibe", fine a se stessa, senza motivo, generata spesso dalla noia, l’apatia inerte, l’estremo non rispetto dell’altro, pericolosissima, incontrollabile.
Parlare della violenza, dare parole nette alle cose più lorde, può servire quindi per porre in luce alcune di quelle zone oscure che in questo modo, cantandole, scrivendole, mettendole in scena, parlandole, navigandole nel web, possono, forse, emanciparsi dal male o perlomeno da quella degenerazione che spesso lo esprime per inerzia.

Carlo Infante