Il rizoma delle reti

 

Un fantasma s’aggira per le reti. E’ il fantasma di un friulano, Giulio Camillo Delminio, l’ideatore - nei primi decenni del Cinquecento - del Teatro della memoria, realizzazione materiale degli edifici mnemonici che l’ars memorativa classica suggeriva agli oratori di edificare idealmente per conservarvi, ben distinte e facilmente recuperabili, in virtù anche di altri rinforzi associativi, le parti del discorso. Ma il teatro di Camillo (un edificio circolare, suddiviso in quarantanove luoghi di memoria determinati da coordinate simboliche e contrassegnati da imagines agentes, icone efficaci ad attivare l’anamnesi) realizzava al tempo stesso l’antichissimo sogno enciclopedico-pansofico, proponendosi come archivio universale dello scibile, organizzato sincretisticamente secondo categorie di derivazione astrologica, ermetica, cabalistica e, nella sua struttura complessiva, immagine omologa di un universo plotiniano, microcosmo in cui gnoseologia e ontologia finivano col coincidere.

Ma che ha a vedere, il mago rinascimentale, con Internet, il ciberspazio, l’infosfera? Il fatto è che, per l’arte della memoria d’antan come per l’informatica d’oggi e di domani, l’obiettivo è quello della conservazione, della fruibilità e della produzione di conoscenza: e se la rete delle reti si va configurando come l’enciclopedia, o la biblioteca, totale, non pochi sono i problemi da superare per garantirne un uso veramente libero e universale.

Forse non a tutti è noto che nel 1995 si sfiorò il collasso di Internet per eccesso di traffico; in tale circostanza il massmediologo Huitema scriveva: "L’informazione è come una droga. Si possono passare giorni e giorni nel ciberspazio soltanto leggendo testi e guardando immagini. Ma allora anche il giovane monaco che nel Medioevo entrava nella biblioteca del suo monastero, avrebbe potuto avere la stessa impressione. Come si trova la strada nel ciberspazio? Il giovane monaco aveva lo stesso problema. Senza una guida, si passa da scaffale e scaffale, da server a server. E’ chiaro che Internet necessita dell’equivalente del catalogo di una biblioteca. Questa è una cosa che i computer fanno molto bene, e non ho dubbi che emergeranno i prodotti di questo tipo. Infatti, la vera ragione del successo del World Wide Web sta nella sua navigabilità: è facile girare le pagine, e in un certo senso la sua struttura ipertestuale costituisce di per sé una forma di catalogazione. Ma sarà l’educazione degli utenti la cosa più importante. Dobbiamo imparare a gestire questo nuovo potenziale, in modo che diventi una fonte di conoscenza piuttosto che una droga".

Convengo sull’analisi, dissento dalle soluzioni proposte. Per molti anni mi sono occupato del Teatro della memoria di Giulio Camillo verificando e confermando la straordinaria - per i suoi tempi - intuizione di Giuseppe Marchetti che tale ordigno precorresse il "cervello elettronico" e comprendendone via via, grazie agli sviluppi dell’elaborazione elettronica di questi ultimi anni, la natura ipertestuale e multimediale ante litteram, sino a concludere che esso potrebbe costituire oggi un prezioso modello per il Web e, spingendomi un po’ nel futuribile, che potrebbe trovare piena realizzazione grazie alla realtà virtuale.

Dissento, dicevo, da Huitema; per loro natura, cataloghi ed indici non possono esaurire le possibilità di accesso alla conoscenza; che l’ipertestualità costituisca di per sé "una forma di catalogazione" mi pare alla prova dei fatti del tutto assurdo: i cibernauti più entusiasti, e meno avveduti, esaltano come pregio della rete la sua struttura - se ha senso chiamarla con questo nome - rizomatica (altri preferiscono la metafora del labirinto del terzo tipo) in cui ciascun punto (nodo) si collega ad ogni altro, e questo ciberspazio acentrato e anarchico viene descritto come il luogo della massima libertà. Tale non è: la navigazione avviene in realtà alla cieca, saltando da uno ad altro dei nodi che altri, non noi, hanno individuato attraverso un processo di quantizzazione, di discretizzazione del sapere (con effetti pericolosi di decontestualizzazione) e seguendo i links che altri, non noi, hanno ravvisato tra essi: operazioni entrambe fortemente soggettive, culturalmente e ideologicamente tutt’altro che neutre. Borges, che spesso viene chiamato in causa dagli studiosi del ciberspazio per la sua Biblioteca di Babele o per l’ipertestuale Giardino dei sentieri che si biforcano, ha scritto pure il breve apologo su I due re e i due labirinti che narra come un sovrano, rinchiuso dal rivale in un inestricabile labirinto, si vendicò abbandonandolo in mezzo al deserto. Spazio insensato, entropico, il deserto non mi sembra altro che l’estremizzazione, il limite del rizoma che percorriamo inconsapevolmente, senza orientamento. In un intervento alla trasmissione televisiva Mediamente, il filosofo Tagliagambe ha recentemente osservato che nel ciberspazio si assiste al trionfo della sincronia sulla diacronia, dello spazio sul tempo: si dilata quello a dismisura, si riduce questo fin quasi ad annullarsi. Paradossalmente, però, a me pare, è proprio della spazialità che non abbiamo il controllo, con l’effetto di reintrodurre, nella misura in cui il surfing si fa casuale ed errabondo, il tempo (e la perdita di tempo, anziché la sua abolizione).

Ed ecco che c’entra Giulio Camillo: il suo edificio era uno spazio architettonico praticabile, "teatro" nel senso della visibilità panottica, e agli occhi di chi vi entrava si offriva in piena evidenza un sistema di conoscenza organizzato per luoghi. Se l’antica mnemotecnica concepiva il ricordare come un’attività psicomotoria, il teatro-enciclopedia faceva coincidere topica e topologia in uno spazio semantizzato, per muoversi all’interno del quale non era necessario un catalogo o un indice, ma soltanto la conoscenza dell’assetto organizzativo. Una mappa, insomma. E neppure quella se, per le sue singolari caratteristiche spaziotemporali, il ciberspazio può smentire il principio della semantica generale di Korzibsky per cui "la mappa non è il territorio": la virtualità potrebbe far coincidere la mappa col territorio, disponendo l’informazione secondo criteri gerarchici, logici, assiologici, comunque di immediata comprensione. Il teatro di Camillo si modellava su un cosmo chiuso, e le sue strutture epistemologiche erano quelle di un pensiero fortissimo; al pensiero debole postmoderno meglio si converrebbe, secondo alcuni, il Web così come si è e si va formando spontaneamente: è il parere ad esempio di Pierre Levy, che lo ha ribadito nel suo recente intervento udinese, ammettendo peraltro la necessità locale di strutture ad albero.

Ma sembra che si voglia tutelare piuttosto un principio di presunta democrazia che non quello di una effettiva accessibilità dell’informazione, di cui il teatro camilliano è secondo me paradigma. Confesso d’aver provato una forte emozione, qualche anno fa, nel leggere, tra gli atti del Convegno sul ciberspazio di Austin, Texas, 1990, l’intervento di Michael Benedikt, architetto, che proponeva per un archivio iconografico un ordinamento di tipo "neoplatonico" del tutto simile a quello del teatro camilliano: "questa forma di visualizzazione, tipica delle interfacce più avanzate, unisce parte della logica panottica del diagramma con la logica aperta e l’accesso diretto, istantaneo, di un database tradizionale... palazzo di posti attraverso cui vagabondare... un edificio virtuale di tipi, una specie di museo o "palazzo di posti"". Quale che fosse, il modello architettonico potrebbe trovare compimento in quello urbanistico: mi capirà facilmente chi, per aver letto i romanzi di Gibson o aver visto il film Johnny Mnemonic ha familiarità coi viaggi dei suoi protagonisti all’interno del ciberspazio che egli stesso ha battezzato: "tutti i dati del mondo erano lì, impilati come una grande città fosforescente, intorno a cui si poteva fare un giro, per averne almeno una prima impressione visiva; altrimenti, sarebbe stato troppo complicato arrivare al particolare dato richiesto" (in Monna Lisa Cyberpunk).

Ho avuto modo di esporre queste mie vedute al convegno su Scienze, tecnologie e teatri della memoria tenutosi il 25 marzo a Torino in occasione della VIII Settimana della Cultura Scientifica e Tecnologica, confrontandomi con gli altri relatori: Alfredo Rocchetta del Politecnico di Torino, Andrea Terranova del Politecnico di Milano, Lina Bolzoni della Normale di Pisa e Vittorio Sette, delle Audiovideoteche RAI. Coordinati da Carlo Infante, che già tre anni or sono presentò a Trieste un suo CD ipermediale sul teatro d’avanguardia strutturato sul Globe Theatre shakespeariano inteso come teatro della memoria, dai versanti delle due culture ci siamo trovati d’accordo nel riconoscere l’importanza che il progetto di Camillo venga fatto proprio dall’ingegneria della conoscenza e i vantaggi che potrebbero derivare da una pianificazione architettonico-urbanistica dello spazio dell’informazione.

Ma non posso dimenticare, accanto all’aspetto noetico ed euristico, quello poetico e fantastico: il teatro di Giulio Camillo era in primis un ordigno retorico, un repertorio letterario finalizzato alla produzione di nuovi testi. Ebbene, nel citato convegno di Austin un altro architetto, Markus Novak, indica come conveniente al ciberspazio un’ "architettura liquida": "con il termine liquido mi riferisco ad una entità animistica, animata, metamorfica, che supera i confini delle categorie e che richiede le operazioni cognitivamente ricche del pensiero poetico". Idea prettamente camilliana se, come io credo, il teatro della memoria era anche una macchina combinatoria, metaforica e metamorfica: non per nulla tra le imagines agentes spicca la figura di Proteo.

Persino la funzione più esoterica del teatro camilliano, quella alchemico-magico-mistica, potrebbe oggi essere assolta da un teatro virtuale; Timothy Leary ed Elemire Zolla, ad esempio, ritengono possibile l’esperienza estatica ciberspaziale. Questi ultimi aspetti hanno ispirato a Bonawentura (Picotti, Pisciotta e Amodio) il ciclo di concerti, conversazioni, proiezioni, spettacoli - un’exploit creativo combinatorio del tutto camilliamo - tenutosi nel mese di febbraio presso il Teatro Miela di Trieste che, col titolo di Fluidi Magici, ha reso omaggio al Teatro di Giulio Camillo (alla tavola rotonda inaugurale ho partecipato assieme a Lina Bolzoni, Corrado Bologna e Daniele Cortolezzis). Insomma, dopo secoli di rimozione, Camillo, che al suo tempo fu tra i più rinomati e chiacchierati personaggi d’Europa, attira nuovamente su di sé l’attenzione. Yates e Rossi lo hanno riscoperto, Bolzoni e Bologna gli hanno restituito il posto che gli spetta nella storia letteraria italiana; altri studiosi in diversa prospettiva lo stanno riscattando dall’oblio in cui lo precipitarono le censure controriformistiche ed illuministiche; quanto a me, confido di aver contribuito a consegnarlo al futuro.

Mario Turello