domenica 4 luglio, una domenica come tante...
L'autoesposizione
disincantata
Avanzano sulla passerella come hanno visto fare in tv a modelle, e
modelli, strafiche. E' in quella immagine edonista dell'autoesposizione
disincantata della passerella di moda che si basa lo spettacolo "Kung
fu, best of" di Victoria: piccolo grande catalogo di ritratti
adolescenziali. Bestiario erotico-esistenziale di tanti giovanissimi
attori-non attori: attanti, come li si potrebbe definire secondo la
semiotica del teatro. Il fatto piu' importante e' che in questo modo
entra in gioco quella verita' confessata spudoratamente come su un
muretto di complicità autocoscienziali. Solo che li' sei in scena,
davanti a centinaia di persone. Mi viene in mente quella "drammaturgia
del vissuto" che ha fatto grande il teatro-danza di Pina Bausch nel
far raccontare ai suoi performer le vicende della loro quotidianita'
in un "automatic thinking" che non concedeva nulla all'interpretazione.
Solo verita' del vissuto spudoratamente messo in piazza. La regia
di Pol Heyvaert con Deejay e Veejay (video) accoglie tutto in un contesto
che induce ad un dance-party che non sfocia se non fuori dallo spettacolo,
in ultimissima serata. Fuori da uno spazio-tempo teatrale che nonostante
le belle intensita' non raggiunge ad una sua forte risoluzione. (kain)
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La
violenza celibe
C'è un gesto: veloce il dito indica una, due, tre persone nella platea e poi il pollice bruscamente mima il taglio di una gola, buona per tutti e tre. Come quando sul computer marchi più files da eliminare con una sola cliccata. Quel gesto è emblematico, esprime una violenza celibe, disancorata da qualsiasi senso morale o responsabilità, è più drastico della solita P38 mimata o delle mani a coppa che evocano un "bucio di culo tanto". Una violenza seriale, lapidaria, grave e innocente insieme. Si, nell'adolescenza la violenza è un linguaggio, parte dal corpo verso il corpo. Capisci di colpo quanto sia importante quindi il sesso, ancor più dell'amore. Negli anni dell'adolescenza perlomeno. E ti stupisci, ancora una volta, come qualcuno, qualcuna, ami farlo con la violenza. E' come se si volesse far parlare il corpo più della mente e delle emozioni. Zittirla, la mente, sotto le urla del corpo ferito o che ferisce. Nell'esperienza dei fiamminghi di Victoria (che hanno coptato un bel gruppo di ragazzi e ragazze marchigiani) questa violenza è solo giocata, citata, emerge solo in parte nelle storie frammentate come microflash esistenziali sparati dal proscenio. Il Kung Fu del titolo dello spettacolo diventa così solo emblema di una violenza simbolica che non ferisce ma che si idealizza come pratica vitale e superficiale. E penso alla violenza celibe di quei ragazzi della banda dell'impermeabile nero che fece quella assurda strage nel campus americano. Fecero per davvero. E qui si fa finta di sparare, di tagliare gole, di scalciare colpi micidiali con incoscienza e leggerezza ma senza senso. Ma la violenza può forse avere senso? Esiste una violenza, come la guerra, giusta? (kain) |
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"Quel
gesto è più drastico della solita P38 mimata"
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La
violenza come segno fatale
(...)"Kung fu - Best Of", realizzato a sei mani da Pol Heyvaert, Felix van Groeningen e Jonas Boel, è un defilé di quaranta adolescenti, dai quattordici ai vent'anni, che non si defilano. Raccontano se stessi in una manciata di secondi. Pene d'amore, disagi, senso di disadattamento, crisi, manie, voglie e gusti detti con un'autoironia che non manca di divertire né di disorientare quando la violenza e il dolore arrivano come segni fatali. La struttura è quella della passerella di moda, anche l'incedere in successione degli interpreti e le pose non fanno che sottolineare la scelta stilistica, a ritmo techno e volume assordante. Tiene legato il tutto l'incessante proiezione di video, molte delle quali a circuito chiuso rinviano istantanee di volti dei ragazzi in primo piano. L'immagine di apertura è, naturalmente, quella di Bruce Lee mentre, in un filmato d'epoca, descrive l'essenza dell'arte marziale che dà il titolo allo spettacolo. A differenza dei colpi devastanti del karate, il kung fu è fluido e inafferrabile quanto un bicchiere d'acqua. I giovani belgi traducono quella fluidità in fine polverizzazione acustica e visiva di immagini, suono e parola, per un lavoro che conta molto sul coinvolgimento emotivo o ritmico della platea. Non sono pochi i ragazzi che si impongono all'attenzione per presenza, sfrontatezza o concentrazione. Bellissimi visi acqua e sapone, sguardi intensi e languidi. (...)(maria manganaro estratto da Corriere Adriatico) |
kung
fluid |
"...l'efficacia della pratica del kung fu: conoscere e immergersi nella fuidità dell'acqua - per difendersi e aggredire nel momento giusto". |
Un
grido di rabbia
Il teatro un salto nella verità della passerella dei ragazzi di "Kung fu - Best Of", un tuffo nei loro pensieri, quelli che spesso non si vogliono ascoltare; questa volta inondano, dilagano e costringono la mente a sentire desideri che non ti appartengono, che non scaturiscono dai tuoi sogni; forse necessità di comunicare le loro verità nell'unico posto dove verità non è mai stata il teatro. Un grido di rabbia che intravedi nella sfida lanciata dai loro sguardi, che nasce e cresce con i loro passi sicuri e sfrontati o indecisi e timidi per poi esploderti fragorosamente in faccia e poi silenzioso come è nato muore. (sonja) |
Parlando
di amore, di morte e di sesso
(...)Luci da discoteca, passerelle da sfilata da moda, un grande schermo che fa da sfondo sul quale passano le immagini più varie, dal kistch televisivo a facce e luoghi della vita di quei giovani, spesso con gusto grafico da pubblicità per teen-ager, e ancor più spesso rimandano le stesse azioni che accadono in palcoscenico riprese nel dettaglio di un primo piano. Cantano canzoni di Eros Ramazzotti o ballano su un brano di George Michael. Ma tutto questo miscuglio di comportamenti, di atteggiamenti, di frammenti visivi e sonori, viene riproposto senza esibizione, senza caricatura, senza neppure ironia. E' un vero e proprio sistema di comunicazione e di senso, è il linguaggio di questi giovani, qui presentato così, in maniera acritica, senza sovrapporvi un giudizio di alcun tipo, né chiedendone uno a noi. Lo spettacolo scorre piacevolmente in questo modo, con i giovani che si fanno inglobare da suoni , luci e visioni. A tutto questo aggiungono loro brevi riflessioni, racconti, aneddoti, pensieri, anche qui senza la preoccupazione di dover dire qualcosa di importante, ma riportando soprattutto quello che sembra essere il problema di fondo di tutti loro: il rapporto con la propria identità, la difficoltà nell'osservare gli aspetti contraddittori della propria interiorità, riflettendo così in maniera ancor più efficace la complessità del mondo che gira loro intorno e che non da risposte ma soltanto segni confusi. Riportiamo frammenti di sentimento, parlando di amore, di morte, di sesso, di violenza. Un solo esempio: una ragazza esegue una canzone di Amy Stewart con grande impegno, e poi si ferma per dirci che è una canzone stupida tratta da un film ancor più banale, ma che lei la canta perché tutti le dicono che lo fa molto bene. (...)(antonio audino estratto da Il Sole 24 ORE del 4 Luglio '99) |
L'apnea
del corpo che sogna
Quante volte abbiamo parlato di narrazione senza parola. E ci s'incaglia sempre sul senso stesso del narrare che non è se non logico-conseguenziale e quindi lineare. Ma non ci sto. No, non ci sto. Ho visto tanti di quegli spettacoli qui a Polverigi in vent'anni di nomadismi teatrali che mi hanno dimostrato che può esistere un modo di narrare che passa esclusivamente attraverso il corpo e la visione. Chi si ricorda Hesitate & Demonstrate? Certo, si tratta di altri registri, analogici come quelli di un videoclip o di un sogno. Si tratta di stabilire un approccio particolare con la nostra percezione e tutta quella elaborazione mentale che nel passaggio sinaptico tra l'emisfero destro del cervello e quello sinistro non vincoli tutto alla ricostruzione simbolica del linguaggio. Non è un discorso complicato è più naturale che affrontare questioni simili attraverso il filtro della letteratura. I ginevrini (con innesto brasiliano) di Alias mi ricordano che è possibile, superando l'esercizio di stile di tanta danza: narrano con i loro corpi e mi invitano ad andare in apnea con loro. (kain) |