domenica 11 luglio, ore 2.00 epilogo

Il senza-festival
E' l'ultima sera... e non ci sono.
O meglio, ci sono stata solo la prima, causa uno strano destino.
E così, questa volta, non so quasi nulla: nulla delle atmosfere, nulla delle persone, nulla degli "eventi"...che cosa mi sono persa?
E c'era quest'anno quel qualcosa che fin dalla prima sera ti aspetti che debba esserci per forza e ti spinge a voler entrare il prima possibile nel meccanismo perverso?
Perché il problema sta tutto lì, quando sei presente, travolta dalle corse ai posti, dalle chiacchiere, dagli spettacoli, dal caldo delle sale chiuse, dai "non so cosa vedrò", tutto é come scontato, perché comunque ci sarai...e poco importa se alla fine quel qualcosa non ci sarà, magari non te ne sei accorto, più probabilmente non ti é piaciuto, ma eri lì...
Questa volta proprio non ci sono, quindi Polverigi raccontato... (ofelia56)
Zaranda:Stairway to Heaven

qué manera de llover!

Non solo cazzatielle
Atmosfera concentrata e grandi attese per la nuova prova di Francesca Lattuada, personaggio già noto al Festival di Polverigi sin dal '97; la danzatrice/cantante che con la sua compagnia Festina Lente ci ha abituato a spettacoli visionari ed ironici, sempre ben congegnati ed allestiti, sempre di forte impatto visivo. Quest'anno la ritroviamo in un assolo, col segreto timore di sentire la mancanza del resto della compagnia. Ma già all'inizio presagiamo che non rimarremo delusi.
Scena spoglia. Una sedia al centro, due piedistalli laterali con sopra un vaso ed un bicchiere, un pannello verso il fondale, spostato verso destra. Lei al centro, sulla sedia, tutta bianca. Indossa uno strano copricapo bianco - a metà tra parrucca settecentesca, cespuglio, orecchie di coniglio o quant'altro vogliate immaginare - ed un abito/grembiule bianco panna essenziale e geometrico (sappiamo poi essere giapponese). Cerone sul volto, ed eccola trasformata in un'icona sacra e pagana, in bianca vestale officiante misteriosi riti. La liturgia inizia con movimenti evocanti i mille personaggi divorati e già digeriti (come recita il foglio di sala); quindi eccola dar voce a quei corpi; o meglio, ecco che i divorati s'impossessano di lei e parlano attraverso la sua voce. Attraverso il suo canto. Un canto di area mediterranea/levantina, tra il Salento ed i Balcani. Antiche canzoni popolari, accompagnate da musiche che rielaborano vecchie melodie in modo high-tech e contemporaneo, con effetti insieme affascinanti, stranianti ed ironici.
In questa galleria di personaggi evocati - evocati anche visivamente dalla retroproiezione sul pannello di una mirabile serie di ritratti fotografici fin de siècle che sanno d'età coloniale e di contrasto occidente/oriente (ottima la ricerca iconografica) - capita che degli oggetti si animino e si muovano da soli in scena, che dal vaso cresca una pianta stecchita, che compaiano dei grandi totem primitivo-oceanici, che il bicchiere esploda ad uno dei più forti acuti di questa cantatrice danzante mentre intona "La donna è mobile" su un megafono, con effetto parodico e assurdo. Quell'ironia colte ed intelligente, costante cifra stilistica dell'opera di Francesca Lattuada, che gioca e lavora con un immaginario ricco di stimoli antropologici, e con un vissuto di esperienze che incrociano popoli lontani e diversi ma che si somigliano in certe forme originarie di mitologia e ritualità.
Una specie di Orfeo al femminile, questa moderna sciamana, capace, col canto, di animare oggetti e visitare le regioni degli Inferi, in una sorta di discesa interiore centrifuga, verso zone popolate da voci ed identità molteplici ed oscure.
Uno spettacolo originale di sapore estremamente contemporaneo, frutto di un rigoroso lavoro di sottrazione che ha reso ancora più pulito ed essenziale un percorso artistico - quello della Lattuada - segnato dal crisma di un rigore formale che tende ad una purezza cristallina ma mai fredda, legata com'è alle origini sacre e rituali del teatro. Il tutto accompagnato da un profondo senso del fare teatro, da una serietà professionale visibile anche nell'abile e raffinato gioco di luci (Eric Lousteau Carrer) e nel controllo sonoro (Paolo Bergel) delle musiche curate da Ghédalia Tazartès; ottima anche la scenografia (Philippe Meynard) di quest'opera apparentemente "ridotta" - "Cazzatielle", recita il titolo - ma in realtà profondamente ricca della sua compiutezza autonoma, indipendente nella sua contaminata purezza.
Ancora una volta tanto di cappello ad un'artista che vorremmo più presente in Italia (Francesca Lattuada risiede a Parigi) o che vorremmo fosse possibile ascoltare in qualche incisione di non troppo ardua reperibilità.
Non son solo cazzatielle, tutt'altro… (luciano piattella)

 

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