Il progetto della messa in scena muove i suoi passi partendo dall'interesse
intorno al testo biografico "Lettera al padre",
del grande scrittore Franz Kafka, dall'ipotesi di tradurre la narrazione
kafkiana nel linguaggio onirico e surreale del teatro.
Alcuni frammenti da "Lettera al padre" riscritti
per la scena da Francesco Cassata, ci permettono di investigare
il rapporto padre-figlio attraverso uno splendido strumento
di precisione, qual è la lucida confessione di Franz Kafka
in età adulta.
Ci occupiamo dell' "irruzione della memoria", del
sogno e dell'incubo, di un caso di morbosa o meglio, insostenibile
comunicazione tra il Padre Kafka e il Figlio Kafka, protagonisti
della pièce.
La messa in scena si costruisce via via insieme al testo, in un
percorso che ci appare inesauribile e che non trova soluzione o
spiegazione definitiva, non trova sistemazione insomma.
In scena sono presenti elementi semplici, leggeri e allo stesso
tempo simbolici e polivalenti: il tavolo, quello della cucina di
casa Kafka, dove vigono regole di comportamento rigidissime, il
tavolo dello scrittoio, rifugio per i pensieri di Kafka, il tavolo-bancone
da lavoro del negozio del padre, il tavolo dove si gioca al solitario;
due sedie, dove padre e figlio si confrontano argomentando a turno,
come in un processo che si svolge solamente innanzi a se stessi,
la rispettiva posizione; infine il vuoto, lo spazio della profondità
dei due personaggi.
Tutto è complice in qualche modo degli eventi, frammenti
dell'esistenza e insieme paure mai confessate, "luoghi deputati",
che segnano "solchi" profondi nella vita del giovane
Kafka: il ballatoio, lo spogliatoio, la lezione di nuoto, il sorriso,
la religione, la scrittura, il matrimonio, il gioco, il saluto.
La messa in scena è un po' "balbettata",
ovvero ha il ritmo del frammento di memoria che sul palcoscenico
si intuisce e tenta di prendere forma: un insieme di suoni e di
luci, di "quadri" incompiuti, se vogliamo, si inseguono
come fidanzati impazienti di dichiarare finalmente il proprio amore.
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