Traccia de L'isola di Alcina
con traduzione di alcune parole romagnole
1. Fuggesi Alcina.
Fin da piccole, Alcina e la sorella ascoltavano il padre leggere l'Orlando furioso. Una sera di maggio, il padre se ne andò via, e di lui non si seppe più nulla. Le due sorelle hanno poi continuato il lavoro del padre, custode di un canile.
2. Sogno e invettiva contro la sorella.
Alcina è furiosa con la sorella, considerata da sempre la "bella" della famiglia, chiamata dal padre "la principessa". La sorella, demente, ride e canta, lo sguardo perso. Alcina racconta un sogno in cui un ragno nero insegue una "parpaia" (farfalla) dalle ali dorate.
Poi le chiede cosa vuol mangiare: "T'an vu e' pacöt? S't'an vu e' pacöt a t 'darò dla tardura! Basta che t'ala fëga a la fnida ad piuchê sèmpar!" (Non vuoi il pancotto? Se non vuoi il pancotto ti darò della minestrina, basta che la fai finita di lamentarti sempre).
3. Lo straniero.
"Che furistir" (quello straniero) era così bello, "fôrt coma l'azêr" (forte come l'acciaio), "du oc nìgar coma e' carbon" (due occhi neri come il carbone), che faceva invidia a tutte, "a tot cal sberi sgamugnósi ch'al srusêria tot e' dè, e la nöta al ciaparep in un fër infughì!" (a tutte quelle sfacciate smaniose che dicono rosari tutto il giorno, e la notte userebbero anche un ferro infuocato). Non ho mai capito perché sia venuto con te, dice Alcina alla sorella. E quando ti ha lasciato, tu sei impazzita, "t'a tci ardota accè"" (ti sei ridotta così), a perderti nei campi, a cadere dentro i fossi. E io, dice Alcina, a correrti dietro per tirarti fuori, "a sagatê la mi vita" (a rovinare la mia vita) per tenerti in piedi, e per chi? Per un uomo da niente, da niente, uno straniero "da i rez d'ôr" (dai riccioli d'oro).
4. Invettiva contro gli uomini.
Ma non lo sai, principessa, che "j òman" (gli uomini) sono tutti uguali? "I baia cvânt ch'j è in brânch, mó da par ló j è pirs, j è pirs!" (abbaiano quando sono in branco, ma da soli sono persi, sono persi!)
Alcina prorompe in una furibonda invettiva contro gli uomini, ladri e assassini, capaci di ogni falsità e meschineria. E l'invettiva termina consolando la sorella: è meglio che se ne sia andato, dai retta a me, "che furistir l'éra e' pez d' tot" (quello straniero era il peggio di tutti), era il peggio di tutti!
5. Sui cani.
"Ach fat cvël" (che strano fatto), dice Alcina, io do da mangiare a te e te dai da mangiare ai cani. Io non li posso vedere i cani, "cun cla lengva ch'la suda" (con quella lingua che suda). Però quella volta... quella volta che, nel sagrato della chiesa, un cane aveva messo al muro Suor Andreina e lei gridava "liberatemi da questo cane, liberatemi da questo demonio", quella volta abbiamo proprio riso! Quello straniero... assomigliava proprio a un cane! Aveva gli occhi del demonio! E' bene che se ne sia andato, dai retta a me!
6. L'amore di Alcina.
Alcina rivela che anche lei si era innamorata di quello straniero, e ricorda come l'aveva rubato alla sorella, se l'era portato in casa e gli aveva preparato "un bivirag d érba sidrëla" (un intruglio di erba magica). Ma poi lui se n'era andato via, facendole precipitare entrambe, nella follia e nel rancore.
7. Epilogo dell'istupidimento.
"A m' so insmida" (mi sono istupidita), grida Alcina tenendo per mano la sorella, "int la voia d'perdum tra dla nebia" (nella voglia di perdermi nella nebbia), "int l'êria" (nell'aria), "int e' rispir longh de' vent" (nel respiro lungo del vento), "Tra dal vós, cal vós ch'a sintéva cantê par tot e' borgh" (tra le voci, quelle voci che sentivo cantare nel borgo), nella furia dell'uragano, "guardend cla lona in zil, malêda int e' su coc" (guardando quella luna in cielo, malata nel suo nido).
"Cun cvela vós a zigarò che mêl, che mêl ch'u t'seca j oc!" (Con quale voce griderò quel male, quel male che ti secca gli occhi!).