L'ISTUPIDIMENTO DI ALCINA
In un villaggio della campagna romagnola, poco distante da Ravenna, sono vissute due sorelle, ammattite d'amore per uno straniero.
La più giovane, la prediletta dal padre, da lui chiamata "la principessa", aveva i capelli castani, la pelle chiara, di figura tanto ben formata da fare innamorare di sé tutti gli uomini del villaggio. La più grande si chiamava Alcina (il padre, appassionato lettore dell'Orlando furioso, l'aveva chiamata come la maga di Ariosto): sguardo severo, lineamenti marcati, occhi neri, labbra sottili, forte di temperamento.
Un giorno il padre le abbandonò: non lo videro più, di lui non seppero più nulla. Ereditarono il suo mestiere, diventando le custodi del grande canile situato nel cuore di quel villaggio romagnolo. Un giorno arrivò in paese un giovane straniero, si dice fosse bellissimo. Iniziò a frequentare la casa delle due sorelle, la principessa se ne innamorò perdutamente. Dopo pochi mesi, così come era arrivato, all'improvviso, il bel giovane se ne andò. Abbandonò la ragazza senza avvertirla e lei diventò matta, il sangue le andò al cervello, i mestrui non fluirono più, incapace di badare a se stessa. Alcina decise di accudire la sorella nei suoi bisogni quotidiani e di tenerla con sé nella grande casa. Le due si vedevano spesso passeggiare a piedi per la strada principale del villaggio, una a fianco all'altra, con le mani allacciate, arrivavano fino al canile, al limite nord oltre la chiesa, sostavano un poco davanti al cancello d'entrata e poi tornavano a casa. A volte si vedevano in bicicletta per i viottoli in mezzo ai campi, la principessa vicino al fosso un poco più avanti di Alcina che le poggiava la mano sulla schiena, così, per proteggerla. A mezzogiorno, il latrare delle bestie si sentiva per tutto il paese, attendevano le due donne con il pasto. Lo stesso accadeva al tramonto. Alcina aveva una voce profonda e roca, gesti autorevoli, incuteva timore, salutava solo con un cenno degli occhi e rivolgendosi alla principessa le ripeteva sempre "brava brava".
Alla principessa era rimasta la voce acuta da adolescente, rideva senza motivo, allacciava frasi scombinate e salutava i passanti cantando. Ora le due sorelle sono molto vecchie, abitano ancora la vecchia casa padronale, hanno i capelli bianchi, la principessa li porta a onde come quando era ragazza, Alcina li porta lunghi e lisci, a volte stretti in una treccia. Si vedono ancora passeggiare dalla grande casa al canile vuoto, abbandonato. A metà strada fanno una sosta vicino a un possente albero di fico che ricade con i suoi rami sul fosso. Ci girano attorno, lo puliscono, raccolgono i frutti, le foglie cadute, mettono tutto dentro a due secchi di plastica e li portano al canile. La gente racconta che Alcina, all'insaputa della sorella, si era presa piacere anch'essa col giovane straniero.
"... e Alcina stia ne la sua pena". Orlando furioso (X, 58)
E' da qui, da dove la liquida Ariosto, che noi iniziamo l'istupidimento furibondo di Alcina. Il suo sembiante crolla per incantamento o per fissità di destino in una Alcina romagnola, nel tempo fermo della sua più funesta giornata, che sono tutte le giornate: il girare a vuoto della fissazione amorosa.
Alcina, nel VI canto, prima di perdere il suo potere di incantatrice capace di sedurre e trasformare gli uomini, prima di ridursi a una pena straziante e immedicabile per Ruggiero, viene additata come rappresentante di tutti i bugiardi e imbroglioni che ordiscono trappole per le dementi illusioni umane. E' signora di un mondo ridotto alla potenza magica dell'occulto, alle frodi comuni che permeano tutta la vita. E' un falso sembiante, il viso non corrisponde a ciò che è nel cuore, una disgiunzione tra immagine e sostanza.
L'istupidimento di due sorelle della campagna romagnola, invischiate in un incantamento di trappole amorose, ognuna in una propria mancata corrispondenza tra immagine e sostanza, come negli effetti della magia, è stato da noi sovrapposto alla pagina del Furioso. A Nevio Spadoni, poeta in lingua romagnola, abbiamo chiesto di scrivere il canto di questa nostra Alcina, pietrificata nella "pena", lamento e maledizione. A Luigi Ceccarelli, musicista, di comporre una partitura capace di disegnare, coi suoni, il terremoto interiore che squarcia la fata. Anche la lingua muta sembiante e si fa dialetto, lingua selvatica, voce incaponita, suono indecifrabile, invischiata nella "inestricabil ragna" (XIV, 52) del tormento amoroso, "int e' rispir longh de' vent/ch'e' smesa l'acva int e' su pas".
Non c'è azione, non c'è dramma: solo l'errare della voce vagabonda, visione fabulatoria in cui ci si può perdere come nello schianto dei sogni.
Ermanna Montanari
Marco Martinelli