Sofri si misura con il testo di Wilde e lo traduce
nella sua esperienza, rilevando quelle condizioni estreme del corpo
che in carcere arrivano anche all’autoferimento per legittima difesa.
“Ci si fa male - dice - per non farsi far male”.
L’immagine che suggerisce è terribile, rende l’idea di quell’abisso
di violenza che spossessa un uomo del suo bene più prezioso, il
proprio corpo. E il suo tempo, la sua vita. Parla dei chilometri
che fa di notte andando su e giù nei pochi metri quadri della sua
cella. Una vertigine nello spazio. Il suo annullamento (dello spazio)
nella coazione a ripetere di passi che attraversano lo spazio, sognando
quello negato. Confessa che nei sogni (quando si ha la fortuna di
dormire) c’è la migliore risorsa in cui attingere, e in prossimità
logica riconosce che anche nel teatro emerge in carcere la straordinaria
opportunità di vivere vite che altrimenti sono sospese, negate.
Riconosce finalmente quelle potenzialità del teatro come forza generatrice
di vita, affermazione che mai avrebbe fatto anni fa.
Ricordo ancora, all’interno del giornale “Lotta Continua” (su cui
scrivevo di teatro già dal 1978) certe discussioni sommarie sul
teatro di ricerca che io mi ostinavo a segnalare, rilevandone proprio
la potenzialità vitale in periodi (erano gli “anni di piombo”) in
cui la tensione creativa, l’energia viva di una generazione di ventenni-trentenni
sconfitti, sembrava naufragare “contro gli scogli della vita quotidiana
“ (Majakovskij). Sofri nella sua solitarietà ci fa pensare. E’ la
sua qualità, la sua vocazione.
E penso di nuovo allo spettacolo che abbiamo appena visto.
Il corpo di Oscar Wilde in quel carcere evoca le figure pittoriche
e patologiche di Francis Bacon. E’ la cornice stilizzata di un cubo
in acciaio a trasmettere l’idea della prigione e allo stesso tempo
quella delle cornici in cui Bacon rinchiude le sue figure malate
d’alterità (la stessa visione la rileva Francesco).
Il De Profundis di Verdastro-Scarlini si presenta come un’opera
algida, nonostante il dramma di un dandy piombato nel carcere per
colpa delle “debolezze” del suo corpo, colpevolizzate dalla società
vittoriana. Una figura danza e canta per contrappunto, in una combinazione
di siparietti d’alta qualità che tendono però a rarefare qualsiasi
tensione, azzerando ogni pathos possibile, componendo il tutto in
un’operina da camera (da cella), assolutamente ben interpretata
ma senza cuore, scissa, intellettuale. (carlo)
La perdita
d’innocenza del Novecento
Non si può scrivere o parlare subito dopo lo spettacolo:
tutto è troppo confuso, mescolato, indistinto,ingarbugliato. Scrivo
con la lucidità malata delle otto del mattino, chiuso nello scatola
plumbea del cielo.
Ho letto "De profundis" a diciotto anni, credo, e non ho mai dimenticato
una frase: "tutto ciò che è compreso è giusto".
Mi ritornava in mente ieri sera: e se la vera giustizia fosse la
comprensione e non la sanzione ? Se il giusto coincidesse davvero
con la tensione intellettuale ?
Cambio punto di vista: Wilde nella gabbia esistenzialista di Francis
Bacon.
Geniale.
Ma se in Wilde la degradazione del corpo coincide con la spiritualizzazione
dell'anima, in Bacon non resta che il corpo, la sua deformazione,
il suo orrore. Sulla scena appare, senza dirlo, la perdita d'innocenza
del Novecento. (francesco)
Chiuso in un non-spazio
Sulla scena un cubo metallico che riproduce, stilizzandole,
le fattezze di una cella. Wilde rinchiuso in un non-spazio si racconta
interrotto solo da canti, vocalizzi, grida di una presenza femminile.
Dopo lo spettacolo la video intervista a Sofri mi ha gelato il sangue.
La concretezza del suo racconto rendeva visibile, quasi messa in
scena, una serie di sensazioni, di azioni quotidiane: i chilometri
percorsi (avanti, indietro, avanti, indietro...) nei pochi metri
della cella, di notte. Il sogno come unica e vera fuga dall'opprimente
reale circonstanziale, dall'obbligo di non vivere.
Il dibattito non sono riuscita a seguirlo, la testa pulsava di sensazioni
e rumori. (Chiara)
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